giovedì
9 NovUn’ombra si abbatte sulla Mitteleuropa. Ultra-destra e nazionalismi etnocentrici a Visegràd
di Giovanni Costenaro.
Il 10 maggio del 2004 rappresenta una data importante per la storia europea e globale: quel giorno, 10 paesi situati in Europa centrale, dall’Estonia alla Slovenia (oltre a Cipro), entravano a far parte dell’UE, dando vita al più ampio allargamento della Comunità dai tempi della CECA. In generale, da allora le economie di questi paesi hanno conosciuto una crescita sostenuta e costante, fatto salvo, per alcuni di essi, per gli anni immediatamente successivi alla crisi del 2008. Il caso della Polonia è in questo senso esemplare: come si legge nel rapporto “10 PL-UE. I 10 anni della Polonia nell’UE”, redatto nel 2014 dal Ministero degli Esteri polacco, in dieci anni di appartenenza all’UE il PIL dello stato mitteleuropeo è cresciuto del 48,7%, si sono creati 2.000.000 di posti di lavoro e soprattutto, mentre la maggior parte degli altri paesi europei scivolava verso un periodo di forte recessione, nel quinquennio 2008-2013 il PIL del paese guidato allora da Donald Tusk cresceva del 20%. Secondo lo stesso documento, inoltre, tra 2004 e 2013, senza l’adesione all’UE, l’occupazione polacca sarebbe stata più bassa del 10% e la disoccupazione più alta del 38%, di modo che vi sarebbero stati quasi 500.000 disoccupati in più.
Significativamente, nell’introdurre questi impressionanti risultati il Ministero degli Esteri rimarcava le grandi speranze con cui la Polonia aveva deciso di aderire all’UE, ma anche la coesistente paura di perdere progressivamente la propria sovranità nazionale, timore condiviso da molti altri stati dell’area, tra i quali ad esempio la Repubblica Ceca.
Tre anni dopo la redazione di quel rapporto, si può legittimamente concludere che, se da un parte le speranze si sono pienamente realizzate, dall’altra le paure rimangono ancora illusorie: in realtà, sembra quasi che la Polonia e gli altri paesi d’Europa Centrale possano esercitare sui cugini occidentali un’influenza maggiore di quella che questi ultimi esercitano effettivamente verso i primi. I movimenti nazionalisti, euro-scettici e identitari che si stanno sviluppando in Austria, Repubblica Ceca, Polonia, Ungheria e in parte della Germania, rischiano infatti di destabilizzare non solo il progetto europeo, ma la stessa tenuta democratico-liberale degli stati dell’Unione, già messa a dura prova dagli innumerevoli fenomeni disgregatori cui abbiamo assistito negli ultimi anni (dalla crisi economica del 2008, alla difficile gestione dei flussi migratori, fino alla crisi catalana, tanto per citarne alcuni).
Ma che sta succedendo in Europa Centrale? Anzitutto, stiamo assistendo a una crescita esponenziale di partiti e movimenti che, identificandosi con il popolo del proprio paese, sostengono la necessità di rovesciare élite percepite come corrotte, incapaci di veicolare la volontà della popolazione e spesso additate come nemiche stesse della nazione, di solito da parte di leader carismatici che si propongono di ristabilire l’ordine violato dall’establishment. Poco importa se tali leader fanno essi stessi parte di quell’élite che vorrebbero rovesciare, se incappano in evidenti casi di corruzione, o se sono addirittura multi-miliardari che nulla hanno a che spartire con il popolo che dicono di rappresentare. L’importante è che si facciano portatori di un messaggio simile a quello sopra menzionato, che in Europa Centrale assume alcune ulteriori caratteristiche comuni: nazionalista, etno-centrico e anti-migratorio, euro-scettico e conservatore.
Come si è arrivati a questa situazione? Svariati politologi cercano di rispondere a questa domanda ormai da diverso tempo: conclusioni certe, è difficile trarne. Ciò che sembra evidente però, è che determinate cause si possono rintracciare in alcune peculiarità del sistema politico dei paesi fuoriusciti dall’Unione Sovietica. In particolare, rispetto ai paesi d’Europa Occidentale, in quelli del Centro non si sono ancora costituiti partiti in grado di rappresentare adeguatamente l’elettorato, né essi si sono istituzionalizzati radicandosi stabilmente nella società. In poche parole non si sono formate organizzazioni partitiche “ben stabilite e ampiamente riconosciute, se non universalmente accettate”. La bassa istituzionalizzazione dei partiti e l’ampia volatilità elettorale che si verifica in quei paesi (ovvero l’alta percentuale di elettori che cambiano il proprio voto da un’elezione all’altra) – a sua volta concausa e conseguenza dello scarso radicamento partitico in quell’area – contribuiscono a favorire i movimenti anti-sistema, sospinti inoltre dai frequenti casi di corruzione che coinvolgono spesso l’entourage politico centro-europeo (e non solo). Nonostante le differenze tra i vari stati, simili dinamiche hanno caratterizzato la storia recente di movimenti di destra e sinistra in vari paesi, come ad esempio Lituania, Lettonia, Estonia, Slovacchia e Bulgaria, oltre che, ovviamente, Polonia, Repubblica Ceca e Ungheria.
Oltre a ciò, vi sono poi altri fattori che accomunano l’ascesa di partiti quali L’Azione dei Cittadini Insoddisfatti (ANO 2011, in Repubblica Ceca) Legge e Giustizia (PiS, Polonia) e L’Azione dei Cittadini Insoddisfatti (Fidesz, Ungheria), pertinenti al messaggio politico da essi veicolato. In particolare, una certa forma di nazionalismo etno-religioso e un parziale euroscetticismo che si manifesta in un atteggiamento generalmente favorevole verso il Mercato Comune e i fondi strutturali UE, e in un rifiuto delle condivisioni di responsabilità che comporta l’adesione all’Unione. In special modo, verso i tentativi di politiche comuni nei confronti dell’attuale crisi migratoria e umanitaria creata dalla guerra in Siria e nei confronti di alcuni pilastri basilari della Comunità e della stessa democrazia rappresentativa, come ad esempio la tripartizione dei poteri, che in Polonia è stata duramente attaccata. Ogni tentativo di protesta e intervento da parte dell’UE e degli stati che ne fanno parte, viene poi visto come un’intromissione degli affari interni degli stati, in linea con i timori espressi dopo il 2004. Insomma, anche in Europa Centrale si vorrebbe godere dei benefici offerti dall’Unione senza assumersi i costi e le responsabilità che l’adesione comporta. Una menzione speciale merita poi l’atteggiamento nei confronti della crisi migratoria, che si lega in questo caso al nazionalismo etno-religioso di cui Orbán (Ungheria), Szydło (Polonia) e Babiš (Repubblica Ceca) si fanno portavoce. Infatti, se da una parte i numerosi immigrati ucraini presenti in Polonia e Ungheria sono spesso ben accetti e aiutati, dall’altra si oppone un netto rifiuto verso l’entrata di persone di altre etnie (si legga di non bianchi) e in special modo di fede musulmana, nonostante l’esiguo numero di tali individui nell’area. Evidentemente dunque, la giovanissima tradizione democratica di questi paesi, l’auto-percepita omogeneità etnica, la paura di trovarsi schiacciati tra Europa e Russia, il profondo radicamento della religione cattolica giocano un ruolo importante nell’ascesa dei partiti nazionalisti e xenofobi in Europa Centrale.
L’aspetto più preoccupante del fenomeno inoltre, è che il mantenimento di un certo tipo di ‘carattere’ o identità nazionale si vede legato a concetti etnici e religiosi, e non al contesto istituzionale, educativo e legale nel quale si dovrebbero formare i cittadini di uno stato.
Tratti simili si possono ritrovare poi nei movimenti d’estrema destra in Austria e Germania, i quali però sorgono in un contesto molto diverso. Per quanto riguarda la Germania, si può notare come Alternative für Deutschland (AfD) abbia ottenuto un maggior consenso nelle aree appartenenti all’Ex Unione Sovietica, tra l’altro attirando 1.200.000 voti tra i precedenti non votanti, 970.000 voti dalle sinistre (Die Linke e Social Democratici) e 980.000 voti dal Centro Destra (Cristiano Sociali e Cristiano Democratici). Anche in Austria vi è stato un exploit di conservatori ed Estrema Destra, ancor più marcato se si pensa che il neoeletto presidente Kurz, in campagna elettorale, ha largamente utilizzato il linguaggio etno-centrico ed anti-migranti tipico del partito anti-sistema, Il Partito della Libertà (FPÖ). In questi casi però, né AfD né FPÖ sono partiti di maggioranza, per cui il loro comportamento in parlamento e le strategie adottate dagli altri partiti nei loro confronti rivestiranno particolare importanza. Si tratterà di vedere, cioè, se le forze parlamentari riusciranno a limitarne gli effetti o se saranno sospinte verso politiche sempre più identitarie e nazionaliste, che potrebbero minare fortemente il progetto europeo e, paradossalmente, gli interessi delle loro stesse nazioni.
Soprattutto in un momento in cui le frizioni internazionali tra colossi quali Cina e India, Russia e USA, nonché problemi globali quali migrazioni e cambiamenti climatici dovrebbero spingerle verso una sempre maggiore integrazione.
Nel frattempo, i tradizionali partiti di sinistra dell’area sembrano condannati all’irrilevanza, segno che le battaglie per i diritti civili e delle minoranze, e gli appelli a una solidarietà umana e a una società aperta non colpiscono più gran parte dell’elettorato.
Il caso della Polonia
La Polonia rappresenta forse il caso più interessante, vista anche l’importanza geopolitica e geostrategica di questo stato, che si appresta sempre più a divenire un fondamentale nodo di comunicazione tra Europa Occidentale, Russia e Cina. Molto brevemente, da quando il partito d’estrema destra Libertà e Giustizia è asceso al potere (nel 2015), il suo consenso è continuato a crescere. E ciò, come riporta il politologo Aleks Szczerbiak, nonostante i durissimi attacchi ad esso portati dall’opposizione e dalle istituzioni europee. In particolare, il partito è stato accusato di autoritarismo e di minare la separazione dei poteri e l’apparato democratico dello stato attraverso il suo approccio all’informazione e ai diritti civili. Nel frattempo, diverse indagini sulle intenzioni di voto dei polacchi mostrano che il supporto nei confronti del governo ha raggiunto il 43% (mentre nelle elezioni del 2015 il PiS aveva ottenuto il 37,6% dei voti). Oltre a rifiutare una più equa ripartizione delle quote di rifugiati, il PiS sostiene politiche volte a un potenziamento dell’esercito polacco e delle basi NATO, ovviamente in funzione anti-Russa. Ma ad ottenere ancor più successo sono state le politiche interne attuate dal governo, ovvero l’attuazione di un programma di sovvenzione per i primi figli delle famiglie più povere e per ogni secondo figlio e i successivi di tutte le famiglie (corrispondente a circa 125 euro al mese) e la soppressione della legge che alzava l’età pensionabile dai 67 ai 65 anni. La politica famigliare del governo merita poi un interesse particolare perché, come si legge nel sito web del programma, ha lo scopo di contribuire all’aumento della fertilità, attualmente attestatosi a 1,3 figli per donna. Tali ingenti spese, che per il momento non sembrano minare le prestazioni economiche polacche, rispondono così a tre richieste: quella delle famiglie meno fortunate di voler partecipare al boom economico dello stato, la paura di un calo demografico deleterio per la società e la domanda di voler mantenere una chiara identità etno-nazionale e religiosa, come dimostrato dalle recenti preghiere contro l’Islam (condannate dal primate polacco). Come riportato da alcune indagini inoltre, più del 70% dei polacchi si è dichiarato sfavorevole a una redistribuzione dei richiedenti asilo provenienti dal Medio-Oriente e dal Nord-Africa. Se le prestazioni economiche della Polonia dovessero perdurare, è poi probabile che si produca un effetto emulazione anche in Europa Occidentale, soprattutto in quelle aree in cui sempre più voci denunciano l’attuazione di una supposta quanto assurda “sostituzione etnica”.
Sembra quasi che il Centro Europa stia ricadendo in un contesto in cui a definire l’identità di una persona sia il colore della sua pelle, mentre il monolitismo etnico e religioso diventa preferibile a una multiculturalità e a un pluralismo percepiti come fallimentari, nonostante quelle zone non li abbiano mai veramente conosciuti. Le possibilità di un effetto domino sono chiare e concrete, visti soprattutto i successi economici della regione. E a poco vale ricordare che, fino a pochi anni fa, era l’idraulico polacco il nemico che minacciava l’identità inglese o italiana. Uno sguardo alla situazione dell’Europa Centrale risulta però utile, nel senso che potrebbe indurre le forze moderate e progressiste a riappropriarsi con forza di temi quali la famiglia, il lavoro, l’identità nazionale ed europea, la ridistribuzione delle ricchezze, i diritti delle ‘maggioranze’, senza porli in contraddizione o in minor risalto rispetto a quelli delle minoranze, dei diritti civili, dell’accoglienza (razionale e non ideologica) di immigrati e richiedenti asilo.
La grande scommessa futura delle forze progressiste è forse proprio quella di saper integrare quelle che solo in apparenza paiono rivendicazioni diverse e opposte, ma che in realtà costituiscono due facce di una medesima medaglia. La difesa dei principi che contraddistinguono l’Europa del dopoguerra può quindi passare attraverso un ripensamento della nazione come parte integrante, e non obsoleta, di un processo volto a costituire una società aperta ai diritti e alle diversità, più egualitaria e volta ad arricchirsi attraverso differenti identità.
Possibilmente prima che arrivi un altro miliardario a dirci che soffriamo a causa di un siriano che scappa dalle bombe o per colpa di un sedicenne senegalese che scappa dalla povertà, dalla fame, dalla mancanza di lavoro.
iMille.org – Direttore Raoul Minetti
1 comment
non è un’ombra ma una luce, la resistenza dei popoli europei contro il genocidio programmato