domenica
24 NovStudio e analisi del nuovo libro di Luca Ricolfi
di Francesco Rocchi.
Recentemente è uscito il nuovo libro di Ricolfi, “La società signorile di massa”, e con esso sono ritornate le polemiche sulla scuola, dato che una sezione del libro è dedicata proprio all’istruzione italiana. Ricolfi non porta argomenti nuovi, ma poiché è noto per l’attenzione che pone nel proporre analisi sostenute da una raccolta di dati rigorosa, sarà il caso di non trascurare il suo accorato J’accuse nei confronti della scuola italiana.
E’ importante sottolineare fin da subito che Ricolfi, sulla scuola e sull’analisi della sua storia nel corso del ‘900, non è stato all’altezza del rigore di cui altrove invece dà sicura mostra. Nemmeno alla lontana, e in maniera decisamente stupefacente, anche se forse sarebbe meglio dire imbarazzante. In questo articolo andremo ad analizzare i pricipali punti deboli del suo argomentare.
Il punto di partenza di Ricolfi è che la scuola è stata sottoposta ad un vero e proprio “processo di progressiva distruzione”. L’affermazione è grossa, e infatti Ricolfi sente subito il bisogno di farci capire che questa non è una sua personale idiosincrasia, ma una verità di scienza valida “sia in Italia sia nei Paesi avanzati”, confermata niente meno che da “innumerevoli” studi. Sugli innumerevoli studi Ricolfi, bontà sua, ritiene di non doversi soffermare, ma in quello che deve essere stato un sussulto di rigore accademico, ci elargisce comunque una noterella bibliografica: sette voci che vanno dal 1997 al 2013. Non sono poi così tante, e se si va a controllare, per la maggior parte non sono neanche studi veri propri, ma generica pamphlettistica o reportage giornalitici che fanno colore, ma nient’altro. A fronte di una progressiva distruzione che investirebbe tutti i Paesi avanzati, stupisce la tenuità di queste citazioni, soprattutto considerando che Ricolfi non dovrebbe avere difficoltà a consultare studi statistici rigorosi e specificamente focalizzati sull’istruzione nel mondo come le rilevazioni OECD-PISA, TIMSS, o PIRLS (e ovviamente tutte le rilevazioni dei singoli Paesi sul loro proprio sistema di istruzione).
Ma tralasciamo questo primo, sconcertante passo falso e andiamo avanti: Ricolfi indica con mano sicura chi sono i colpevoli di così grande distruzione: il ’68, Don Milani, la scuola media unica. La cosa curiosa è che il declino è in generale dei Paesi avanzati, ma le cause sono tutte italiane. Non curante di questa contraddizione, Ricolfi, studioso di statistica, sociologo, psicometrista e docente universitario, non ci nasconde di certo la pistola fumante che corrobora le sue accuse, la prova definitiva e schiacciante della verità di quanto dice: “Avendo frequentato le aule scolastiche e universitarie -prima come studente poi come docente di sociologia e di analisi dei dati -per oltre sessant’anni, dal 1956 a oggi, posso testimoniare direttamente quel che è successo”. E’ un bene che Ricolfi sia un docente di analisi dei dati, altrimenti verrebbe il sospetto che stia usando aneddotica personale per corroborare una tesi vaga che arriva a conclusioni arbitrarie.
Continuiamo ad andare avanti, anche dopo questo ulteriore sfondone. Il punto successivo e conseguente alla distruzione dell’istruzione è l’inflazione dei titoli di studio. Secondo Ricolfi anch’essa è studiatissima dai sociologi, ma a conforto di quest’altro superlativo assoluto egli cita soltanto uno studio di Boudon del 1973. O l’inflazione è stata rapidissima e definitiva (magari non si è più ripresa dallo shock petrolifero?), e allora uno studio del ’73 che in realtà parla di altro può andare bene per spiegare la società del 2019, oppure c’è qualche cosa che, di nuovo, decisamente non va.
E a questo punto diventa problematico riassumere cosa pensi Ricolfi, perché il suo ragionamento si riempie di non sequitur. L’inflazione dei titoli di studio nascerebbe dal fatto che per molte professioni siano richiesti titoli di studio più elevati che in passato, cosa che genera tempi di istruzione più lunghi e maggiori costi per le famiglie. Se questo processo può chiamarsi inflazione, bisogna dire che è in atto sin dai tempi della legge Coppino del 1877, che ampliava l’istruzione obbligatoria introdotta dalla legge Casati nel 1859. Ma perché questa cosa dovrebbe definirsi inflazione? In tutto il mondo avanzato aumentano i lavori che richiedono alte specializzazioni e si vanno perdendo i mestieri a basso valore aggiunto, sostituiti da macchine, robot o altre forme di automazione. Non si tratta nemmeno di un processo indotto dall’istruzione, ma dalle richieste dell’economia industriale e post-industriale italiana, che oggi farebbe fatica ad impiegare stuoli di bracciani semi-alfabeti, mentre ha bisogno di lavoratori con competenze informatiche, gestionali, scientifiche, ecc. ecc.
Incurante di tutte queste grosse falle nel proprio ragionamento, Ricolfi si lancia a questo punto in un’intemerata sulla mancanza di sacrificio, di capacità di tollerare la fatica, di rigore da parte delle nuove generazioni, che sono state rovinate dal fatto che non si boccia più. Questo in realtà è né un ragionamento né un’indagine sociologica: sono luoghi comuni, per non dire semplicemente delle grandi panzane.
Innanzitutto, nelle scuole italiane si boccia. Quanto a bocciature, L’Italia è al di sopra della media OCSE, con un 16-17% di studenti bocciati nel percorso educativo complessivo, anche se poi in realtà le bocciature avvengono per la grande maggior parte nel primo biennio delle superiori. Certo, ci sono Paesi che bocciano molto di più: Macao, la Tunisia, il Brasile e l’Uruguay sono in testa alla classifica, ben oltre il 40% di bocciati. Sono loro il nostro modello?
Abbiamo anche un tasso di abbandono scolastico molto alto, che nelle regioni meridionali e in particolare in Sardegna arriva a tassi superiori al 20% e in generale si è attestato nel 2018 intorno al 14,5%. Dieci anni fa, questo dato era addirittura al 19,2%. Se andiamo ancora più indietro, scopriamo che le scuole superiori ancora nel 1985 erano appannaggio di poco più di metà della popolazione adolescente italiana.
Si aggiunga a questi dati anche qualche confronto impietoso con il resto d’Europa. Nella fascia d’età 25-64 i diplomati sono il 60,9% contro il 77,5% della media Ue28, mentre quanto a lauree, nella fascia 30-34 anni, in Italia siamo al 26,9% a fronte del 39,9% della media Ue28 (media che ingloba quindi anche l’Italia stessa e molti Paesi assai poco competitivi, laddove il confronto diretto con i Paesi davvero avanzati sarebbe ancora più imbarazzante).
Esattamente, quindi, Ricolfi di quale infiacchimento, di quale inflazione sta parlando? Come può dire che i “pezzi di carta fioccano”? Ricolfi, nonostante la sua statura accademica, non è riuscito a mettere insieme un quadro della situazione dell’istruzione italiana minimamente credibile, che corrobora con dati sbagliati o con vere e proprie bufale (ricorrenti sono quelle da lui citate del datore di lavoro che non trova lavoratori e si lamenta…generalmente si tratta di qualcuno che non ha ancora capito come si cerca del personale ai tempi di internet, e non trova nessuno). Si è limitato a rinverdire il topos dell'”umarell didattico”, ripetendo luoghi comuni che circolano sin dai tempi degli antichi greci, dell’antico Egitto e dell’antica Babilonia, come a suo tempo ha dimostrato Franco Nembrini in un sapido video di qualche anno fa.
La scuola italiana ha le sue belle difficoltà: sottofinanziata, incapace di selezionare insegnanti capaci, materialmente cadente, non riesce ad adempiere al suo ruolo di costruzione di capitale umano o almeno non quanto servirebbe. Se se ne vuole fare qualcosa di utile bisogna migliorare radicalmente la qualità della didattica, abbattere l’abbandono scolastico, fornire un legame strutturale con il mondo del lavoro e curare con molta più attenzione la formazione degli adulti, che in Italia è largamente deficitaria. Ma tutto questo trascende di molto il vanverismo pedagogico di Ricolfi, ed è un peccato, perché di analisi spassionate e concrete della scuola italiana abbiamo bisogno come il pane.
[…] *pubblicato sulla rivista iMille […]