A cosa serve l’Italiano a scuola?
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A cosa serve l’Italiano a scuola?

A cosa serve l’Italiano a scuola?

di Francesco Rocchi.

Questa domanda, che a prima vista può sembrare peregrina o scontata dato che nessuno sta mettendo in discussione la necessità di studiare l’italiano con un congruo numero di ore in qualsiasi indirizzo scolastico, è in realtà molto attuale. Dal momento che la scuola italiana sta attraversando una crisi strutturale, per quanto non tutti se ne siano accorti, sarà ben necessario chiedersi quale debba essere il ruolo della materia più trasversale in assoluto. Oltre a questo, bisogna vedere di quale cornice organizzativa e valutativa abbia bisogno una didattica dell’italiano rinnovata
E’ bene chiarire fin dall’inizio che di qui in avanti mi occupo soprattutto di scuola superiore, in primo luogo perché è quella in cui lavoro e poi perché è quella che raccoglie insieme un po’ tutto il lavoro pregresso e lo porta al punto fermo della “maturità”.
Non si tratta di ribadire una volta di più che una buona cultura umanistica è necessaria, ma di capire dove e come sia necessario modificare da un lato la cultura umanistica che la scuola produce, dall’altro la didattica con cui essa viene insegnata (è bene sottolineare che qui di seguito non si daranno che spunti rispetto ad un tema così ampio).
Quel che a scuola impariamo tutti quanti è, fondamentalmente, la storia della letteratura. Tutto questo non è un male ed è ciò che faccio anche io come docente di italiano. Però ci sono delle cose che rimangono fuori da questo impianto didattico, e di cui sempre di più sentiamo la mancanza. Aggiungo che tali mancanze mi sembrano particolarmente acute in quelle scuole tecniche e professionali in cui, a causa di un classismo implicito ma infallibile, si raccolgono con maggior frequenza studenti che hanno intorno a sé un ambiente culturale meno ricco, o meno sfruttato.

Quali sono dunque le cose che mancano o che non sono insegnate? Una è il gusto per la lettura, un’altra la capacità di scrivere in maniera chiara e argomentata, un’altra ancora è un interesse vivo per forme di espressione culturale al di fuori del perimetro tradizionale della “letteratura”. In altre parole: gli studenti italiani leggono mediamente poco, scrivono non troppo bene e hanno relativamente scarso interesse per teatro, fumetto, cinema e, in generale, per tutto quello che esula dal “canone” (e per grandi pezzi del canone stesso, a dire il vero). Quel che agli studenti viene insegnato, piuttosto, è il tecnicismo della letteratura: storia e contesto delle varie opere, aspetti formali, teorie della letteratura, ecc.
In altre parole, la scuola insegna ad essere dei filologi o dei critici letterari in erba, spesso in una maniera tanto semplificata da non andare oltre una assai generica infarinatura. In un certo senso, l’insegnamento dell’italiano sembra essere propedeutico all’iscrizione a Lettere, così come l’insegnamento delle materie scientifiche è propedeutico all’iscrizione alle facoltà di Chimica, Fisica, e così via.

Considerando però che gli studenti di Lettere sono già fin troppi e che, per ammissione concorde di tutti, il senso di insegnare Lingua e Letteratura italiana è nel fornire una base di cultura umanistica ad ogni futuro cittadino, forse la domanda iniziale comincia a sembrare meno bizzarra. Se non serve a diventare professionisti della critica, a cosa serve studiare italiano?
Una prima risposta, assai lontana dall’essere originale, è che lo studio dell’italiano serve ad accedere a tutte quelle forme di cultura che usano l’italiano come lingua veicolare. Posso immaginare l’obiezione più ovvia: se già è difficile insegnare la sola letteratura, in questo modo facciamo letteralmente esplodere i curricula scolastici.
Non è per addizione che dobbiamo lavorare, bensì per trasformazione. Da una scuola enciclopedica dobbiamo passare ad una che fornisca abbastanza stimoli da rendere autonomi gli studenti nell’attiva ricerca delle più disparate forme di produzione culturale, sulla base della loro personale preferenza.

Questo vuol dire leggere, vedere, ascoltare quanto più possibile direttamente in classe. E subito dopo il lavoro di fruizione, è necessario che gli studenti imparino a fare due cose: reagire a quel che hanno di fronte e saper articolare i pensieri che emergono da questa reazione. Se si legge, vede o ascolta qualcosa, bisogna essere in grado di cogliere ed esprimere le proprie reazioni emotive, morali, psicologiche ed estetiche, motivarle, confrontarle con altre esperienze simili. Bisogna imparare a confrontare le idee e ad argomentarle. Certo, non ha molto senso tentare di convincere qualcuno di quanto sia bello un film o un libro che non gli è piaciuto, ma si può in ogni caso discutere dei problemi e delle questioni che un prodotto culturale solleva. Tutto ciò può non sembrare troppo diverso da quel che fa il critico, ma a differenza di questo, i nostri studenti non devono fare i meccanici di un’opera, bensì soltanto fruirne. Così come non è necessario essere registi per vedere un film e commentarlo, non è necessario essere critici per leggere un libro, e così via.
Attenzione: con questo non si vuole dire che la storia della cultura italiana sia inutile e che sia sufficiente raccogliere e articolare impressioni estemporanee. Se dobbiamo insegnare ai nostri studenti ad esprimere giudizi ed opinioni, è bene che lo facciano con cognizione di causa. In questo senso, non c’è alternativa ad una buona base di conoscenze della storia della cultura (classica, italiana o mondiale che sia).
Da questo punto di vista la struttura organizzativa della scuola non aiuta (e il discorso non sarebbe ristretto al solo italiano o alle materie umanistiche). La scuola italiana manca di tensione e di spinta. Si procede per addizione e con perfetta continuità cronologica, ma senza organicità. Se l’approccio poi è molto tradizionale, si arriva a leggere i testi originali soltanto dopo che sarà stato spiegato in dettaglio agli studenti cosa devono pensare di quei testi.

Il lavoro standard è questo: si studia un periodo, con indicazioni su orientamenti culturali ed estetici, poi si passa alla biografia di un autore, alla sua poetica, all’argomento delle sue opere e infine alla lettura dei testi. L’idea è che senza tutto il lavoro precedente alla lettura, i testi non sarebbero capiti. Questo approccio è basato su una sostanziale sfiducia nelle capacità di comprensione dei testi degli studenti e non prevede mai una lettura attiva. Il ritrovare quanto studiato nei paragrafi su bio e poetica nei testi veri e propri è quanto di più inerte si possa immaginare. Peggio ancora, questo lavoro è generalmente seguito da un momento di valutazione, dato da un compito o dal cosiddetto “giro di interrogazioni” (che in realtà può distribuirsi nella didattica in maniera molto variabile e spesso random). Si studia per quel momento e poi, nonostante minacce, ripetizioni e scarti improvvisi del docente, il vecchio materiale di studio non viene più ripreso.
Con questo tipo di lavoro quel che rimane come patrimonio di conoscenza non è molto. Cognizioni e informazioni, perché vengano assimilate e trattenute, devono essere richiamate, manipolate e utilizzate più e più volte, a distanza di tempo e in maniera variata, in modo che la padronanza aumenti (qui un link a un riferimento bibliografico utile al riguardo). Oggi quasi nessun professore pretenderebbe di interrogare a giugno su un testo letto a settembre, ragion per cui quanto fatto a settembre è soltanto una rimembranza lontana e impallidita. Anzi, con il ritmo della valutazione cui accennavamo sopra, allo studente rimane l’impressione che lo studio della letteratura (ma, torno a ripetere, il discorso è più generale) abbia un ciclo di vita di un mese o al massimo due, e che sia necessario sviluppare la propria memoria soltanto su un tale lasso di tempo: qualcosa di profondamente deresponsabilizzante.

La mia proposta è quindi di introdurre un cambiamento sostanziale: non solo il lavoro deve cambiare, per soffermarsi molto di più sui materiali primari, dai quali partire prima di qualsiasi introduzione che non sia assolutamente generale (gli studenti sbaglieranno ad interpretarli, non possedendo le basi? E pazienza, si correggeranno approfondendo…è soprattutto così che si impara!), bisogna leggere testi e materiali di tempi e forme diverse per commentarli contrastivamente, e arrivare a capire le epoche e i generi che li hanno prodotti induttivamente e contrastivamente. Come si sarà capito, però, più di ogni altra cosa bisogna modificare la valutazione. Senza voti in itinire (quando invece servono giudizi discorsivi e indicazioni di miglioramento) ma con un esame conclusivo su tutto il programma svolto nel corso di un anno. Starà al docente articolare la didattica in modo da mantenere vivi tutti gli argomenti del programma. Un esempio? Cominciare una panoramica generale della letteratura italiana in chiave cronologica, fornendo per ogni età le caratteristiche fondamentali, per poi leggere testi di epoca diversa e, senza saperne preliminarmente l’autore, tentare di attribuirli, argomentando, ad un’epoca o ad un’altra.

Questo costringe a categorizzare, interpretare, produrre ipotesi e verificarle, e impone di aver con sé un’immagine organica della cultura espressa dalla lingua italiana. Le conoscenze sono tenute vive come necessarie e lo stratificarsi delle informazioni non avviene per semplice successione, ma attraverso una sistematizzazione ragionata. E se ne possono elaborare tanti di sistemi, anche molto diversi ma altrettanto ragionati. Tale continuo lavoro di riflessione è, ça va sans dire, si presta ad essere svolto per iscritto, in maniera via via sempre più consapevole e articolata, con la possibilità concreta, volendolo, di intervenire seriamente sulle oggi abbastanza mediocri capacità di scrittura e di espressione scritta (ma anche orale) dei nostri studenti.

Tanto si potrebbe aggiungere, ma non si finirebbe mai. Intanto lascio questi spunti così come mi sono venuti, e chiudo qui.

iMille.org – Direttore Raoul Minetti
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