lunedì
8 OttRiflessione sulla scuola, ad un mese dall’inizio dell’anno scolastico
di Francesco Rocchi.
Per una volta vorrei tralasciare discorsi tecnici e puntuali e provare piuttosto a fare un ragionamento di ordine generale sulla scuola. Lo riporto qui affinché le mie impressioni di insegnante possano magari essere vagliate da qualcuno che, psicologo o neurologo o altro tecnico della mente umana, sappia dirmi se hanno un qualche senso oppure no.
Il punto di partenza è la constatazione -banale- dell’esistenza di due diverse forme di insegnamento: quello obbligatorio e quello facoltativo. Il primo è quello di noi docenti di scuola; il secondo quello degli allenatori sportivi e dei maestri di musica, o pittura o qualsiasi altra disciplina si intraprenda soltanto per scelta, o che comunque non sia obbligatoria ed universale.
Questa differenza, che potremmo definire “di cornice”, porta a conseguenze importanti e forse -spero- meno banali.
Molta della didattica e della pedagogia cui facciamo ricorso per migliorare l’apprendimento da parte dei nostri studenti è motivazionale: come attivarli, come coinvolgerli, come stimolarli…come evitare che fuggano. La parte su come sfruttare al meglio le capacità cognitive dei nostri studenti quindi è sì importante, ma la sfida vera è sull’adesione di ogni studente alla didattica che gli proponiamo. Una volta ottenuta quella, è tutto in discesa, anche se la didattica stricto sensu non è impeccabile. E questo per una ragione molto semplice: siccome la frequenza è obbligatoria (e le cose che si imparano -ci si creda o no- fondamentali), studenti inerti che non imparano sono un problema serissimo, per loro stessi e per gli altri.
Chi insegna cose facoltative questo problema lo affronta in maniera completamente diversa: pur dovendo essere in grado di intervenire sul carattere o sulle motivazioni dei propri studenti, un insegnante di pianoforte di solito non ha affatto bisogno di convincere i suoi studenti, né deve farlo un allenatore di calcio: i loro allievi vogliono diventare dei virtuosi ed in pro di questo sono disposti ad accettare un tirocinio formalizzato spesso assai duro. Il lavoro di questo tipo di insegnanti, che pure devono tener conto di ciò che la psicologia cognitiva indica come efficace, ha agevolmente modo di essere cadenzato, strutturato e impegnativo anche fino all’eccesso, se necessario, perché può contare sulle energie e le risorse intellettuali di chi tali percorsi può e vuole affrontarli, mentre tutti gli altri sono esclusi (ed è giusto così). A questi insegnanti non viene rinfacciato di far fare attività noiose o ripetitive o dure, se sono necessarie: si chiede piuttosto agli studenti di avere abnegazione o di andarsene.
Nella scuola dell’obbligo invece l’abbandono non è un esito accettabile, anche se, nei fatti, frequente. In questo (e ad oggi solo in questo) la scuola assomiglia alla famiglia: per quanto ribelli o difficili, ai figli la cura parentale non viene tolta, anzi, consideriamo naturale e doveroso che l'”insegnamento” che i genitori naturalmente impartiscono debba continuare. E si tratta di un insegnamento importante. Ma per quanto importante, è anche un insegnamento non formalizzato, bensì basato sulle numerose interazioni date dalla convivenza e dai rapporti d’affetto familiari.
Anzi: se tale insegnamento può proseguire a dispetto di tutto, è forse proprio perché non è formalizzato: con le pause necessarie a far sbollire la rabbia, intervallato da momenti di pura affettività o anche di solitudine e raccoglimento dentro di sé. Le decisioni, in una certa misura, possono essere differite e molte “lezioni” impartite più volte. In famiglia numerose, chi si attarda o è più giovane può giovarsi del modello di chi è più vecchio o meno timido. La tempistica della crescita è, insomma, estremamente elastica, proprio perché soggetta a tantissime variabili. E non c’è una valutazione, visto che la soddisfazione o il disappunto dei genitori sono qualcosa di completamente diverso, ed in ogni caso si esprimono in maniere molto varie e sfumate all’interno del naturale ambiente familiare. Ovviamente non ci sono voti (fa sorridere anche solo il dirlo), anche se in compenso ogni scelta e ogni apprendimento finiscono per essere inevitabilmente “compiti di realtà”: non andare al cinema con la famiglia significa anche non godersi la cena fuori con la famiglia, andare in visita ad un museo implica vivere un pomeriggio con familiari e amici che ha un significato più profondo della semplice visita culturale. Tutto si fonde e si rafforza, almeno laddove la famiglia è funzionale, e con il contributo di tutti: nonostante l’evidente ruolo di guida e controllo dei genitori, i figli sono costruttori attivi dell’ambiente familiare, non semplici “abitanti”.
Il paradosso dell’insegnamento scolastico dunque è di essere non abbandonabile come quello familiare ma formalizzato come quello facoltativo, con in più un sistema di valutazione continuo e martellante e l’impossibilità (almeno nella scuola italiana) di offrire una cornice significativa come quella familiare. Il problema non si poneva finché la scuola era semplicemente una continua selezione a spese dei più deboli, ma ora che abbiamo bisogno di portare tutti ad un buon livello di istruzione, il paradosso emerge.
Noi insegnanti lo sentiamo con grande forza, e ci costa non poche frustrazioni. La scuola formalizzata richiede che tutti gli studenti seguano allo stesso ritmo un percorso sostanzialmente rigido e predeterminato, con una serie di aspettative scaglionate con regolarità nel corso del tempo. I nostri studenti, invece, hanno ognuno tempi e reazioni loro proprie.
Allora forse sarà il caso di strutturare la scuola in modo che fornisca anche insegnamento non formale. Come sappiamo tutti benissimo, la scuola è comunità, e deve essere vissuta con margini di libertà tali da poter accogliere anche chi non ci vuole stare, o ci vuole stare a modo suo.
La formalizzazione dei curriculum sembra dare più garanzie sui risultati, ma nei fatti c’è questo ulteriore paradosso: è molto possibile che i risultati degli studenti miglioreranno se permetteremo loro di non seguire le nostre tappe forzate.
Sarebbe auspicabile modificare in primo luogo la struttura della valutazione nelle scuole. Il sistema ragionieristico ora in uso, con un complicato calcolo di medie e di crediti (che sarà purtroppo reso ancora più stringente dal nuovo Esame di Stato) serve soltanto a favorire un approccio strumentale all’apprendimento, con continui e minuziosi calcoli su come salvaguardare la propria media dei voti (e non è un caso che nella scuola italiana l’imbroglio del copiare sia così diffuso: è una strategia razionale, ancorché moralmente indegna).
Ancora più imporante, la scuola dovrebbe poter essere vissuta con maggiore libertà. Più tempo libero, più fruizione libera delle sue strutture, meno supervisione (alle superiori) e più attività di comunità, sia pure con benefiche ricadute didattiche (come nei club di teatro o di altre attività culturalmente valide).
All’interno di una scuola del genere la valuazione rimarrebbe comunque fondamentale, ma sarebbe gestita in maniera funzionale, senza essere pervasiva e controllante: agli studenti verrebbe chiesto di mettersi alla prova ad intervalli debitamente spaziati, con la possibilità di provare e riprovare, sbagliando e ripetendo fino alla conclusione del percorso, quando finalmente possono trarre le conclusioni del percorso che hanno contribuito in prima persona a costruirsi. A valle di un percorso del genere, la valutazione può essere oggettiva ed analitica in maniera onesta, ben lontana dalle valutazioni rabberciate che emergono ora dai nostri esami di Stato.
In una scuola così, una scuola contenta, mi piacerebbe molto lavorare.
[…] *pubblicato sulla rivista iMille […]