Commercio, sviluppo, sicurezza. Il ruolo dell’ UE nell’ Africa sub-sahariana
 /  Europa & Mondo / News / Commercio, sviluppo, sicurezza. Il ruolo dell’ UE nell’ Africa sub-sahariana
Commercio, sviluppo, sicurezza. Il ruolo dell’ UE nell’ Africa sub-sahariana

Commercio, sviluppo, sicurezza. Il ruolo dell’ UE nell’ Africa sub-sahariana

di Roberto Isibor.

L’Africa rappresenta per l’UE qualcosa di più di un semplice partner commerciale: essa è un vicino prossimo la cui pace, sicurezza e sviluppo sostenibile risultano di fondamentale e diretto interesse per il Vecchio Continente. Non a caso l’Unione Europea, che ha visto la luce contemporaneamente al problema dello sviluppo del Terzo Mondo, sin dalle sue origini ha avuto nei suoi cromosomi l’attenzione per l’Africa[1].

Per l’UE, altresì, l’Africa rappresenta un rilevante banco di prova del proprio modello d’integrazione (inteso come capacità di replicarsi in altre aree geografiche). A riguardo, per quanto complesso e con risultati altalenanti, al fine di risolvere l’evidente marginalizzazione economica dell’Africa sub-sahariana, gli Stati africani hanno costantemente – sin dagli ’60 – perseguito vari e concomitanti processi di integrazione regionale tendenzialmente mutuati dall’esperienza europea[2]. D’altro canto non si deve considerare il processo d’integrazione africano come una semplice copia del processo europeo, in quanto, a ben vedere, i processi di regionalizzazione africani si atteggiano quali evoluzioni naturali del peculiare scenario geo-politico e sociale del continente[3].

Alla luce di quanto sopra, si riesce facilmente a capire per quali motivi lo sviluppo economico dell’Africa – soprattutto per mezzo di un costante processo d’integrazione economica regionale e d’integrazione nell’economia globale – abbia una particolare rilevanza nelle politiche esterne dell’Unione.

I relativi obiettivi europei in Africa, già espressi nella dichiarazione di Schuman del 1950, ebbero la loro prima concretizzazione con la stessa istituzione della Comunità Economica negli anni ’50[4]. Ciò soprattutto quale effetto delle pressioni francesi, le quali portarono alla costituzione della convenzione d’associazione tra l’allora Comunità ed i territori d’oltremare francesi, appunto[5]. La prima evoluzione dei rapporti si ebbe già dagli anni ’60, con la fine del colonialismo[6]. Difatti, nel 1963 e nel 1969, i membri della CEE e diciotto Paesi africani, superando la convezione di associazione, firmarono le Convenzioni di Yaoundé I e Yaoundé II, rinnovando per 10 anni il regime di associazione precedente e preservando così la zona di libero scambio eurafricana precedentemente costituita[7].

La suddetta fase fu caratterizzata dalla reciprocità negli obblighi di liberalizzazione commerciale (per quanto asimmetrica)[8]. Le ragioni dietro la scelta di un tale sistema si basarono tendenzialmente su motivazioni economiche, politiche e soprattutto ideologiche (“first, it was said that only with mutual obligations could Africa negotiate as an ‘equal’ with Europe; second, that these obligations went ‘beyond’ mere contractual relations; and third, that these obligations were essential to ensure that Africa did not fall under the sway of a (non-French) economic power[9]).

I motivi che portarono alla fine del primo modello di rapporti commerciali tra Europa e Africa furono altrettanto molteplici: (i) le sempre più forti critiche nei confronti delle convenzioni, da parti dei Paesi non associati; (ii) l’inefficienza delle preferenze sullo sviluppo commerciale africano; (iii) l’imposizione a livello internazionale del principio di non-reciprocità; nonché (iv) l’ingresso nella Comunità del Regno Unito, nazione a capo di un area di influenza (il Commonwealth), paragonabile a quella francese, e portatrice di una visione delle politiche di sviluppo e commerciali diametralmente opposte a quelle predicate dalla Francia.

Il nuovo scenario ebbe come esito la Convenzione di Lomé (Togo)[10] del 1975, la quale per decenni (attraverso vari rinnovi quinquennali) rimase lo strumento principe di cooperazione e gestione dei rapporti economici tra Comunità europea e Paesi dell’ACP (comprendente paesi dell’Africa sub-sahariana, dei caraibi e della regione del pacifico), gruppo che rappresentava tutti i Paesi associati (e quasi tutta l’Africa).

Il nuovo equilibro ebbe come principale effetto l’abbandono del principio di reciprocità per l’opposto concetto di non-reciprocità. Essenzialmente, ai Paesi dell’ACP non era più imposto di offrire accesso, senza restrizione, ai beni comunitari. Dall’altro lato, la Comunità garantiva accesso senza dazi e quote ai beni provenienti dal gruppo ACP, salvo i limiti per i beni all’interno della Politica Agricola Comune (PAC)[1] – il settore, paradossalmente, di più interesse per tali Paesi.

Lomé non ingenerò nei commerci e nell’economia dei Paesi ACP l’effetto sperato, anzi, molti degli Stati beneficiari affrontarono negli anni ’90, oltre al continuo declino dei traffici (in relazione agli scambi mondiali), un crollo degli investimenti privati e problemi di debito pubblico[2]. Inoltre con Lomé IV, che venne siglato successivamente all’entrata della Spagna e del Portogallo nella Comunità, e con la fine della guerra fredda, la Comunità europea si diresse verso un progressivo disimpegno nell’area ACP, avvantaggiando al contrario una politica mondiale di cooperazione e sviluppo focalizzata più fortemente verso l’America Latina, Sud-Est Asiatico ed Est-Europa. Si osservò in particolare la ri-nazionalizzazione degli aiuti, l’erosione dei privilegi commerciali (le tariffe esterne comuni diminuivano per effetto degli accordi in sede GATT (Accordo Generale sulle Tariffe e il Commercio) e poi OMC (Organizzazione Mondiale del Commercio)) e l’imposizione di più rigide condizioni per aiuti e preferenze[3]. Soprattutto con Lomé IV bis (1995) ci si avviò verso una modifica profonda dell’approccio tradizionale europeo nei confronti dell’ACP poiché diventava sempre più chiaro che i mutamenti in ambito internazionale – globalizzazione, OMC, nuovi equilibri post guerra fredda ed il “disinteresse” dei nuovi membri della Comunità verso la regione dell’ACP, unite alla sfiducia verso le potenzialità delle economie africane – avessero reso il modello dell’associazione, anche nelle forme delle Convenzioni di Lomé, inadatto. La ncessità di rottura ebbe il suo ufficiale compimento con l’accordo di Cotonou (AdC) del giugno 2000 (accordo ventennale, con scadenza nel 2020)[4].

Sarebbe tuttavia errato considerare l’AdC come un progetto di per sé teso al ridimensionamento dei rapporti tra Europa e Paesi di Africa, Caraibi e Pacifico. Con il superamento di Lomé, il tentativo fu all’opposto quello di eliminare i limiti di un rapporto commerciale che non era mai riuscito a conseguire gli obbiettivi prefissati, all’interno di un’atmosfera internazionale sempre più critica e meno compiacente alle politiche europee in tale ambito. Secondo opinioni diffuse, le storiche preferenze concesse al gruppo ACP erano non solo inefficienti (escluse una manciata di casi, es. Botswana), ma bensì, anche colpevoli di aver favorito il processo di marginalizzazione nel commercio mondiale dei Paesi dell’ACP e di aver prodotto gravi problemi di diversificazione della produzione tra i beneficiari. Da sottolineare, tuttavia, che tale convinzione, sempre più diffusa nella Comunità europea, non era però suffragata da argomentazioni che documentavano un evidente nesso causale tra sistema delle preferenze e declino commerciale[5]. In secondo luogo, le preferenze venivano sempre più diffusamente accusate di non essere conformi alle norme del diritto commerciale internazionale. In particolare, la CE si trovò – durante l’epoca delle convenzioni Lomé – nella necessità di chiedere costanti deroghe alle regole GATT, al fine di mantenere il suo sistema preferenziale, in cambio di concessioni, anche relativamente notevoli. Venendo meno il ruolo prioritario dell’Africa sub-sahariana nella politica estera CE, la scelta di sostenere la politica tradizionale nei confronti del gruppo ACP ad ogni costo venne meno. Tale circostanza aggiunse urgenza alla necessità di modificare il sistema tradizionale di preferenze[6].

Nel 1997 iniziò, conseguentemente, il dibattito sul futuro dei rapporti commerciali CE-ACP: la negoziazione si concentrò sulla strutturazione di Accordi Regionali di Partenariato Economico – ARPE, tra CE e sub-gruppi dell’ACP. In altre parole, la riforma avrebbe portato all’abbandono degli storici accordi commerciali UE-ACP al fine di intraprendere un inter-regionalismo differenziato (probabilmente quest’ultima è stata la principale innovazione dell’accordo, rappresentando, da parte dell’UE, il riconoscimento dell’importanza dei processi di integrazione regionale del continente africano per il futuro socio-economico dell’intera area).

L’argomentazione a supporto dell’ARPE, portata avanti dalla parte europea, fu che se rapportato all’alternativa del sistema delle preferenze generalizzato (SPG) il nuovo strumento avrebbe: “consentito di conservare in modo duraturo il legame con i paesi ACP e di attribuire alla cooperazione comunitaria un’identità più forte, aumentandone visibilità e prestigio rispetto agli altri donatori. L’incoraggiamento all’integrazione regionale, divenuto fulcro della cooperazione europea, avrebbe finalmente valorizzato

il “vantaggio comparativo” dell’UE sul campo, e tratto profitto dalla competenza delle istituzioni comunitarie”[1].

Di fronte a tali proposte, i Paesi dell’ACP rimasero invece barricati sul mantenimento delle preferenze storiche e si mostrarono poco propense al dialogo. Solo le scadenze incombenti dovute alla fine della deroga concessa alle preferenze di Lomé portò ad un compromesso tra le parti[2], ossia l’AdC. Ques’ultimo spalancò le porte ad un nuovo sistema di cooperazione, preannunciando le innovazioni che si sarebbero dovute negoziare negli anni successivi.

Difatti i negoziati prevedevano la conclusione, attraverso una sequenza di fasi ed entro il 2007 (data non rispettata), di una serie di accordi commerciali regionali definiti non più ARPE bensì APE (Accordi di Partenariato Economico). La prima fase, “all ACP”, fu basata su una negoziazione collettiva degli elementi fondamentali dell’APE, tra UE da un lato e dall’altro l’intero gruppo ACP (le Mauritius premettero molto su questa fase al fine di evitare la frammentazione del gruppo). Questa primo step si rivelò tutt’altro che un successo poiché non si riuscì a realizzare un accordo quadro: l’UE puntava infatti sulla reciprocità della liberalizzazione e la creazione di “full” APE, ossia di accordi onnicomprensivi non limitati al solo commercio. Tali difficoltà si ripererono nella fase successiva di negoziazione a livello regionale, ove le trattative seguirono un andamento singhiozzante[3]. Le difficoltà furono molteplici: scelta delle regioni con cui dialogare, l’impreparazione degli Stati partecipanti, i limiti delle organizzazioni regionali africane, l’incapacità e mancanza di volontà da parte dei Paesi africani di sviluppare una propria strategia regionale e raggiungere un accordo. Il processo si sviluppò faticosamente, con contestazioni anche interne alla Commissione europea, e tra i paesi dell’Unione, e con obbiettivi che mano a mano si palesavano praticamente irraggiungibili.

Nel 2007 i contrasti intorno all’APE arrivano al punto di rendere manifesta l’impossibilità di raggiungere un accordo “full” APE con quasi nessuna delle regioni africane, entro i termini iniziali. Nonostante ciò la politica negoziale europea rimase quella di concordare gli APE a tutti i costi. La strategia della Commissione decise di strutturarsi in nuove due fasi: completare entro il 2007 degli interim APE, che coprissero almeno il commercio di beni, ed un secondo step che prevedeva la conclusione di “full” APE[4].

Gli interim APE, i quali riconoscevano libero accesso al mercato europeo, da concludere bilateralmente, non furono concordati con tutti gli Stati africani. Nel 2008, infatti, molti dei Paesi del gruppo ACP caddero all’interno del SPG (o del sub-sistema detto Everything But Arms). L’effetto di tale condizione, alla luce della forte dipendenza del commercio africano sull’esportazione ed importazione europea, fu quella di infliggere un ulteriore colpo all’integrazione regionale dei territori africani, in quanto tale processo portò ad una relativa nazionalizzazione delle politiche commerciali di tali paesi.

Il fallimento della strategia “full” APE ad ogni costo portò alla scelta di limitare gli APE all’ambito commerciale per poi proseguire la cooperazione in altre materie nel futuro. A seguito di questa scelta e solo nel 2016 – dopo otto anni – vennero raggiunti sostanziali progressi nelle trattative per gli APE, ad esempio dal 16 ottobre di quell’anno con l’entrata in vigore dell’APE tra UE ed Africa meridionale[5].

In consequenza di quanto sopra, lo scenario attuale si presenta come fortemente frammentato ed incapace di risollevare le sorti dei commerci ACP-UE[6]. Alcuni, peraltro, accusano l’UE di aver impiegato una tecnica “divide et impera” al fine di costringere i Paesi africani a concludere gli APE[7].

In particolare, il sistema dell’APE, pensato quasi 20 anni orsono nell’alveo dell’AdC, si ritiene oggetto delle seguenti criticità, che ne minano o ne minerebbero seriamente l’efficacia[8]:

  1. i limiti riguardanti la capacità produttiva dei Paesi africani, in quanto lo sviluppo economico e la diversificazione nella produzione non possono essere realizzate semplicemente attraverso la garanzia di accesso a nuovi mercati (nuovi consumatori). Evidente sul punto la necessità di un costante e specifico supporto economico e tecnico nei confronti dell’imprenditoria africana, soprattutto nel campo dello sviluppo delle infrastrutture;
    1. l’accesso al mercato europeo non risolve, inoltre, il problema della capacità dei produttori africani di conformarsi alle regole europee, in molti casi estremamente tecniche e complesse (come ad esempio per le regole d’origine). Il rischio è nei fatti di rendere l’accesso al mercato europeo concretamente impossibile per i produttori africani;
    2. i costi della reciprocità, alla luce della struttura fiscale degli Stati africani, le cui principali entrate sono usualmente da rinvenire nell’imposizione di dazi. Evidentemente, un crollo di entrate sul punto potrebbe nel breve tempo arrecare gravi danni alle capacità di spesa pubblica degli stessi Paesi e di conseguenza danneggiare settori critici come educazione e salute. Inoltre, la competizione europea con i produttori africani, se potenzialmente di beneficio per i consumatori, anche in luce dei summenzionati limiti dei produttori africani, potrebbe avere l’effetto di peggiorare le condizioni dell’imprenditoria locale;
    3. in ultimo, se da un lato la scelta dei partner tra le organizzazioni regionali è apprezzabile, ed i processi di integrazione regionale in Africa possono essere visti sotto un’ottica in parte positiva, l’esistenza di una molteplicità di organizzazioni regionali, spesso non coordinate tra loro, mutevoli in composizione ed obietttivi, nonché spesso irrilevanti nei rapporti con l’UE rende la scelta della cooperazione a livello regionale da un lato interessante e utile alla promozione della regionalizzazione nel continente, d’altro canto non sempre oggettivamente in linea con quanto necessario ai fini dell’effettivo sviluppo economico della regione.

    Tale criticità saranno certamento, almeno parzialmente, oggetto delle negoziazioni sulla redifinizione dei rapporti tra UE ed ACP post-Cotonou (data la prossima scadenza dell’AdC nel 2020)[1]. Oltretutto, in via generale, l’intero strumento dell’APE dovrà essere oggetto di valutazione in considerazione del progressivo sviluppo da parte dell’UE di una concomitante visione unitaria e continentale dei propri rapporti con l’Africa, sviluppata in particolare per mezzo della cd. Joint Africa-European Strategy (JAES), che vede nell’Unione Africana uno dei principali referenti.

    In generale, la negoziazione del post-Cotonou e dunque i riflessi di quest’ultima sui rapporti commerciali UE-Africa, nonché il rapporto tra la strategia UE-ACP e quella JAES, paiono assurgere a principali spazi di dibattito nei quali, nei prossimi anni, si concentrerà la discussione sullo sviluppo degli strumenti di promozione dei rapporti commerciali afro-europei.

     

     

     

     

     

    [1]Calandri, Il primato sfuggente. L’Europa e l’intervento per lo sviluppo 1957-2007, Franco Angeli Edizioni, 2009, p. 11.

    [2] Spesso tali processi sono considerati deboli, falliti e nella sostanza “vuoti simulacri”; dimenticandosi, tuttavia, dell’indubbia e non sottovalutabile vivacità degli stessi.

    [3] Soderbaum, Formal and Informal Regionalism, cit., p. 65.

    [4] Schuman, The Schuman Declaration – 9 May 1950, http://europa.eu/abc/symbols/9-may/decl_en.htm (ultimo accesso 22/06/208).

    [5]     In particolare, per la Francia indebolire il legame con le proprie colonie era inconcepibile: particolarmente diffuso all’epoca era, infatti, il concetto di Eurafrica, in base al quale veniva predicata l’esistenza di una intima identità culturale tra Francia e rispettive colonie; vedi Bartels, The Trade and Development Policy of the European Union, The European Journal of International Law, Vol. 18, n. 4, 2007, 739-745.

    [6] Calandri, op. cit., p. 24.

    [7] Ibidem, p. 26.

    [8] Nel 1963 la CEE entrò in negoziati anche con la Nigeria (che si mostrò particolarmente difficile da concludere) ed altri Paesi africani, per la gran parte ex colonie britanniche (non estesi per scopo e grado di liberalizzazione quanto quelli di Yaoundé).

     

    [9] Bartels, op. cit., p. 724.

    [10] Nel Lomé II 1981, Lomé III 1986, Lomé IV 1990 e Lomé IV (bis) 1995 (con aumento costante dei partecipanti).

    [11] Bartels, op. cit., p. 730.

    [12] Calandri, op. cit., p. 43.

    [13] Ibidem, pp. 44-46.

    [14] L’accordo definisce i rapporti UE-ACP per il periodo 2000-2020 ed è stato soggetto a varie revisioni, l’ultima nel 2010. In ambito commerciale, le norme preferenziali che prolungavano (grazie a deroga concessa dall’OMC) il sistema di Lomé sono rimaste in vigore fino al 2007, per poi essere sostituite da un meccanismo frammentato e tutt’ora in costante evoluzione, per una sintesi della situazione si rimanda a: http://www.europarl.europa.eu/atyourservice/it/displayFtu.html?ftuId=FTU_6.6.5.html (ultimo accesso 22/07/2017). Si noti l’esistenza di un altro quadro (supplementare) per i rapporti UE-Africa, il JAES: http://www.consilium.europa.eu/it/policies/eu-africa/ (ultimo accesso 22/01/2017).

     

    [15] Calandri, op. cit., p. 183.

    [16] Ibidem, pp. 184-185.

    [17] Ibidem, p. 187; il Regno Unito era però scettico sull’opportunità di stimolare dall’esterno il regionalismo.

    [18] Ibidem, pp. 187-188.

    [19] Le regioni partner scelte furono: CEMAC; ECOWAS; ESA (Eastern and Southern Africa); EAC; SADC; CARIFORUM (Forum dei Caraibi) e PACIFICO.

    [20] Nel 2007 solo il forum caraibico concluse un accordo onnicomprensivo con l’UE.

    [21] Si veda: http://trade.ec.europa.eu/doclib/press/index.cfm?id=1554 (ultimo accesso 22/01/2017) e http://trade.ec.europa.eu/doclib/docs/2009/september/tradoc_144912.pdf (ultimo accesso 22/01/2017). Tra le conseguenze oltre il declino del gruppo ACP è da segnalare la marginalizzazione dell’AU (la quale non è stata inclusa nelle negoziazioni).

    [22] Particolarmente critici nei confronti degli APE, in Africa occidentale, sono stati Nigeria e Senegal.

    [23] McDonald, Lande e Matande, Why Economic Partnership Agreements Undermine Africa’s Regional Integration, https://www.wilsoncenter.org/sites/default/files/EPA%20Article.pdf (ultimo accesso 22/01/2017).

    [24] ECDPM, Update on regional EPA negotiations: West Africa – EU Economic Partnership Agreement, ECDPM, InBrief 15B, 2006, p. 3 http://ecdpm.org/wp-content/uploads/2013/11/IB-14B-Overview-Regional-EPA-Negotiations-West-Africa-EU-EPA-2006.pdf (ultimo accesso 22/01/2017).

    [25] Commissione europea (SWD(2016) 260), JOINT STAFF WORKING DOCUMENT Evaluation of the Cotonou Partnership Agreement; Parlamento europe e Consiglio (SWD(2016) 380 final) renewed partnership with the countries of Africa, the Caribbean and the Pacifict; Commissione europea, TOWARDS A NEW PARTNERSHIP

    BETWEEN THE EUROPEAN UNION AND THE AFRICAN, CARIBBEAN AND PACIFIC COUNTRIES AFTER 2020’ – Summary report of the public consultation, ultimo accesso https://ec.europa.eu/europeaid/sites/devco/files/summary-report-public-consultation-eu-acp-20160318_en_0.pdf (ultimo accesso, 17 luglio 2018), sul punto non si può sottolineare la scarsa risposta da parte degli stakeholer, soprattutto a livello di provenienza geografica degli stessi.

iMille.org – Direttore Raoul Minetti
Condividi:

Related Posts

Leave a comment

Your email address will not be published. Required fields are marked.*

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.