giovedì
15 FebBitcoin, la fabbrica dei soldi … e lo spreco dell’energia.
di Giancarlo Abbate.
Si parla molto dei bitcoin, delle criptovalute in generale, e, naturalmente, vi sono alcuni strenui fautori e alcuni strenui oppositori della moneta virtuale e, nel mezzo, la stragrande maggioranza che fa fatica a capire cosa è o lo ignora completamente. Io ho cercato di guardarci (un po’) dentro.
Questo articolo non ha alcuna pretesa di analizzare e approfondire aspetti economici, finanziari e/o legali dell’introduzione e dell’uso dei bitcoin (BTC), qui preso a paradigma di tutte le diverse monete virtuali finora introdotte. Vorrei piuttosto descrivere brevemente quello che si capisce, leggendo su vari siti specifici, sul modo di produzione e di uso dei BTC e sul loro possibile impatto sociale, ponendo particolare attenzione agli aspetti energetici.
Il bitcoin è la più nota, e nell’ultimo anno anche molto discussa, delle criptovalute. Già il nome non è un buon segnale, cripto vuol dire nascosto e voler mantenere una valuta “nascosta” dà un’immediata sensazione di illegalità che dovrebbe suggerire una particolare attenzione da parte di tutti i governi.
D’altronde questo è anche il suo maggior pregio agli occhi di tante persone e organizzazioni: la non tracciabilità dei trasferimenti, delle operazioni che si compiono con questa valuta, il completo anonimato dei suoi possessori e la conseguente non tassabilità. Il meccanismo di funzionamento dei BTC, dal conio (chiamato mining, estrazione mineraria, come se si trattasse di un minerale prezioso, l’oro, esempio che piace molto ai suoi sostenitori) al trasferimento e commercializzazione delle “monete”, si basa per l’appunto su una disciplina di dissimulazione e codifica delle informazioni, chiamata crittografia, disciplina antichissima utilizzata per mantenere la segretezza delle comunicazioni militari già dai tempi di Cesare.
Un messaggio codificato può essere interpretato correttamente o conoscendo il codice con cui è stato realizzato o decifrandolo per mezzo di una serie di tentativi (forza bruta o, in inglese, brute force). Naturalmente, se il codice è molto complesso, l’utilizzo della forza bruta per la decodifica potrebbe richiedere talmente tanto tempo da rendere vano il tentativo. Qui interviene però la trasformazione epocale della scienza e della tecnologia operata dalla sostituzione dei calcolatori meccanici (o delle calcolatrici umane come rappresentato nel bel film “Il diritto di contare”, Hidden figures di T. Melfi) con i calcolatori elettronici, i computer, le CPU, le GPU. Problemi complessi conosciuti da molto tempo e ritenuti non risolubili perché non affrontabili analiticamente hanno trovato negli ultimi decenni una soluzione grazie all’applicazione della forza bruta di calcolo dei sistemi elettronici. Un classico, e romantico, esempio è quello dell’onda solitaria, descritta per la prima volta nel 1835 dall’ingegnere scozzese John Scott Russell e chiamata solitone nel 1965. Fin dalla fine dell’800 è stata ricavata un’equazione che descrive questo fenomeno, l’equazione KdV, ma essa fino al 1965 è rimasta inesplorata e non risolta, trattandosi di un problema molto complesso (equazione differenziale non lineare alle derivate parziali). Fu solo in seguito ad una serie di esperimenti numerici, possibili grazie all’avvento dei calcolatori elettronici, che l’equazione KdV fu riconsiderata, risolta e furono finalmente scoperte le proprietà dei solitoni, e le loro notevoli applicazioni non solo e non tanto in idrodinamica ma anche in fisica dei plasmi, nelle telecomunicazioni, nella teoria delle reti elettriche, in fisica dei laser.
Ma torniamo al nostro argomento dei BTC. La potenza di calcolo, sempre e velocemente crescente negli ultimi decenni, permette di creare dei sistemi di codifica crittografica sempre più complessi ma allo stesso tempo rende fattibile l’applicazione della forza bruta, dei tentativi senza avere la chiave di decodifica, per decifrare un messaggio crittografato. Tutte le criptovalute si basano sull’utilizzo della forza bruta dei computer. Molti commentatori fanno risalire la loro nascita ad un testo pubblicato dal cinese Wei Dai (b-money) nel 1998. In effetti, il primo articolo che parla di comunicazioni digitali non tracciabili basati sulla crittografia è di David L. Chaum, dell’University of California-Berkeley, apparso nel 1981. Chaum fonderà poi nel 1989 la prima compagnia di moneta elettronica, fallita 10 anni dopo. Dopo altri 9 anni, nel 2008, appare il sito bitcoin.com e un articolo, che spiega il concetto e l’utilizzo dei BTC, a nome di Satoshi Nakamoto, pseudonimo ancor oggi non identificabile. La potenza di calcolo e soprattutto l’enorme e capillare diffusione dei sistemi di calcolo permettono ormai senza alcun dubbio la fattibilità tecnica del sistema di estrazione, la moltiplicazione dei minatori e degli acquirenti dell’oro digitale, con la speranza (divenuta realtà negli ultimi due, tre anni) che aumenti sempre più il suo valore.
Ancora qualche parola sul sistema di estrazione dei BTC. È chiaro ormai che scavare una pepita digitale corrisponde a decrittare un certo numero di messaggi crittografati. Ma c’è qualche particolarità importante. La miniera (catena o chain) è unica e contiene un finito e ben determinato numero di BTC, 21 milioni. Le pepite (blocco o block) più grandi, quelle che contengono più BTC, sono le più facili e quindi le prime a essere estratte. Man mano che si procede con l’estrazione (mining), non solo i blocchi contengono un minor numero di BTC ma sono più difficili da estrarre perché i messaggi cifrati sono sempre più lunghi e richiedono un maggior lavoro per essere decifrati.
E va be’ poco male, verrebbe da dire, tanto il lavoro lo fanno le CPU dei computer, non i calcolatori, o le calcolatrici, umani/e. Ma il lavoro è impiego di energia qualunque sia il soggetto, uomo o macchina, che lo compie; e l’energia disponibile, come ho discusso qui, è una delle possibili misure della ricchezza, se non la migliore. Le monete lo sono sicuramente di meno, sono piuttosto un certificato, un titolo, che attesta ricchezza. A meno che non si riesca a stampare moneta o a estrarla da una blockchain. Il discorso diventa ora complicato e bisognerebbe tirare in ballo economisti e esperti di inflazione, perciò ritorno all’esempio, rozzo ma efficace, delle pepite d’oro.
Estrarre oro, così come petrolio o bauxite, da un dato sito minerario conviene se e fin tanto che il ricavato supera ampiamente i costi. Cosa significhi l’avverbio ampiamente è difficile dire in generale, ma almeno per le attività che riguardano l’energia è ben codificato, analizzato e descritto nel concetto di EROEI (vedi anche l’articolo già citato), analogo al concetto ROI, Return On Investment, utilizzato in Economia. In particolare, un’attività umana con un rapporto beneficio/costo, EROEI, tra 1 e 5 è tipico della società preindustriale, mentre per la società della conoscenza, o dell’arte secondo Hall, è necessario un rapporto maggiore di 10. E i BTC cosa hanno a che fare con ciò? Ci arrivo.
In un recente articolo di Bloomberg, ripreso da altri giornali/blog ad esempio qui, si parla di restrizioni che potrebbero arrivare fino al divieto delle attività di estrazione dei BTC imposte dal governo cinese ai minatori di BTC, per motivi probabilmente legati all’eccessivo consumo di energia elettrica. Occorre precisare che il 58% dei BTC attualmente viene estratto in Cina. L’articolo è molto interessante e getta un’ombra sinistra sulla sostenibilità energetica, ambientale ed economica dell’attività di estrazione dei BTC. Non si può sapere con ragionevole certezza quanta energia si è consumata nel 2017 per estrarre i BTC, ma Bloomberg arriva a ipotizzare che sia più del consumo elettrico della Danimarca (30 TWh nel 2016). Si tratta davvero di un’enorme quantità, ma per produrre cosa?
Ci sono produzioni industriali ad alta intensità energetica, ad esempio l’alluminio, e proprio per questo motivo queste produzioni si localizzano in regioni dove l’energia costa poco. La crisi dello stabilimento di produzione di alluminio ALCOA del Sulcis del 2012 fu causata appunto dall’impossibilità per l’Italia di mantenere uno sconto del 67% sul prezzo dell’energia a pena di onerose multe da parte dell’UE. Ma l’alluminio è un metallo molto utile e necessario per la nostra società e così ALCOA è andata a produrlo altrove (Arabia Saudita). Al prezzo attuale di vendita l’alluminio ha un’intensità energetica massima di 7,5kWh/$, se l’energia costa più di 0,03 $ (3 centesimi), non è possibile produrre alluminio.
Al valore attuale (ma questa parola è quasi priva di significato per i BTC) l’intensità energetica dei BTC è 9,5 kWh/$. Al costo europeo e americano dell’energia già oggi l’operazione di estrarre BTC è in perdita, considerando i soli costi di energia e ammortamento strumentale. E di anno in anno, anzi di settimana in settimana, i costi di estrazione crescono esponenzialmente mentre il loro valore oscilla paurosamente. In sintesi, in questa operazione si immette una quantità enorme di energia e in uscita non si ha nessun prodotto, nessun bene materiale o immateriale, nessuna quantità di energia utilizzabile, ma soltanto un po’ di calore in più sparso per il pianeta. Cioè EROEI=0. Se si volesse, con un salto logico almeno ardito, equiparare la generazione di BTC con la creazione di ricchezza e quindi, in base all’equazione RICCHEZZA=ENERGIA, considerare come prodotto l’energia corrispondente al valore del BTC, avremmo comunque un EROEI<1, cioè una perdita netta di energia e ricchezza.
Ma questo è solo un aspetto. La Cina, come detto, progetta di limitare o vietare le attività estrattive dei BTC. In Cina l’energia elettrica costa molto meno che nel resto del mondo ed è generata per oltre il 60% dal carbone. I centri cinesi di estrazione di BTC si trovano per lo più in regioni dove questa percentuale è molto più in alta e in un caso all’interno di una centrale idroelettrica; ovviamente queste scelte sono dovute al costo dell’energia che in questi posti è più basso che nel resto della Cina. Cioè, più BTC si estraggono, più carbone si brucia, più CO2 si immette in atmosfera, tranne nel caso in cui si usa l’energia idroelettrica (ma che potrebbe avere altri più ragionevoli utilizzi). Insomma, dal punto di vista ambientale i danni prodotti dai BTC sono tutt’altro che trascurabili in senso assoluto e il rapporto danni/benefici è praticamente infinito, visto che benefici ambientali dei BTC non è possibile ipotizzarne.
Non riesco a scorgere neanche alcun beneficio sociale delle criptovalute ma mi vengono subito in mente possibili danni. Per loro natura i BTC permettono transazioni non tracciabili e perciò non tassabili, con evidente danno per gli stati a cui quelle tasse sono state sottratte e per la loro organizzazione sociale, cioè aumenta la disparità sociale. Vi sono inoltre danni individuali potenzialmente molto grandi. I BTC non sono soggetti a furto, almeno in linea di principio, ma si perdono facilmente, sembrerebbe più facilmente di altri beni preziosi. Notizie riportate da siti specializzati in BTC, e riprese anche dall’articolo di Bloomberg già citato, parlano di 4 milioni di BTC persi, o tecnicamente non utilizzabili, su 16 milioni estratti finora. Uno su quattro, il 25% va perso! Alcuni sostengono che a questo numero bisognerebbe sottrarre il primo milione di BTC tenuto nascosto dal fantomatico inventore della tecnologia BTC, Satoshi Nakamoto, ma anche così farebbero 3 milioni persi su 15, uno su cinque, il 20%. Come è possibile? In effetti è plausibile. Se perdi il codice, la tua chiave privata, hai perso tutto irrimediabilmente, non c’è possibilità di recupero. Se anche hai cento copie della tua chiave e le mantieni segrete per ovvi motivi, alla tua morte i tuoi eredi non avranno modo di entrare in possesso dei tuoi BTC. Il loro valore se ne è totalmente andato in calore e CO2.
Per finire, nella figura qui sopra, presa da un sito specializzato in criptovalute, è mostrato l’andamento del valore dei BTC negli ultimi sei mesi. A prima vista sembra l’andamento di una qualunque azione quotata in borsa, con i suoi tipici saliscendi, per esempio da comparare con l’andamento del titolo FCA negli ultimi sei mesi riportato qui sotto.
Tuttavia, se guardiamo con un po’ di attenzione i numeri, ci possiamo rendere conto che sei mesi fa il BTC valeva circa 4500 $, a dicembre ha toccato un picco di oltre 19000 $ con un incremento del 420% in 4 mesi e il 6 febbraio 2018 valeva 6000 $ perdendo il 68% del suo valore massimo. Qualcuno si è sicuramente arricchito nel 2017 (pochi, credo) e qualcun altro si è impoverito nel 2018 (probabilmente in numero maggiore). Simili variazioni sono difficilmente catalogabili come volatilità, direi piuttosto che si tratta di un gioco d’azzardo, di roulette. Per quanto riguarda l’andamento del titolo FCA negli ultimi 6 mesi, sottolineo che l’ho scelto come metro di paragone, dopo aver controllato tutti i 40 titoli del FTSE MIB, perché è quello che nell’ultimo anno ha avuto la maggiore variabilità. FCA dal minimo di 6 mesi fa al massimo del mese scorso ha avuto un incremento del 98% in 5 mesi e da quel massimo al minimo del 6 febbraio ha perso il 10,5%. Tutti gli altri titoli hanno avuto variazioni molto più contenute.
La mia conclusione dovrebbe essere ormai evidente. Il gesto più ecologico, socialmente utile ed economicamente conveniente che ogni nazione potrebbe e dovrebbe compiere nel più breve tempo possibile è quello di seguire l’esempio, seppur tardivo, della Cina.
1 comment
Articolo molto interessante, grazie per questo spunto di riflessione.