Prima di Brexit. L’uscita della Groenlandia dalla Comunità Europea (e alcune lezioni)
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Prima di Brexit. L’uscita della Groenlandia dalla Comunità Europea (e alcune lezioni)

Prima di Brexit. L’uscita della Groenlandia dalla Comunità Europea (e alcune lezioni)

di Alessandro Venieri.

Uno dei temi più caldi di questo autunno 2017 continua ad essere la trattativa in corso tra Regno Unito e Unione Europea riguardante la fuoriuscita del primo dalla seconda.

Mentre il gabinetto May perde sempre più in credibilità e in coesione, soprattutto in seguito alla tutt’altro che irresistibile vittoria alle ultime elezioni generali, la Banca di Inghilterra sta già rivedendo al ribasso le stime sulla crescita del GDP, andando ad impattare sfavorevolmente sul corso della sterlina, mai così debole negli ultimi cinque anni nei confronti dell’euro.

Il Regno Unito, con una certezza nemmeno qui totale, smetterà di essere soggetto ai Trattati dell’Unione dal 29 marzo 2019, esattamente due anni dopo l’attivazione dell’articolo 50 del Trattato di Lisbona, secondo quanto prescritto dal terzo paragrafo dell’articolo medesimo.

Uno scenario come questo, tra il surreale e il tragico, non sarebbe stato immaginabile fino a una quindicina di anni fa, e non tanto per le diversissime condizioni politiche ed economiche del continente, quanto piuttosto perché fino all’entrata in vigore del Trattato di Lisbona nel dicembre 2009 in nessuno dei precedenti Trattati dell’Unione era prevista la possibilità di un recesso dall’Unione stessa.

Correttamente, gli esperti rilevano come la Brexit rappresenterà il primo caso in cui uno Stato membro lascerà l’UE. Al contempo, però, va ricordato che non sarà la prima volta che un territorio smetterà di essere parte integrante della Comunità: ad esempio ciò accadde già nel 1962, al termine della guerra di Algeria. E, soprattutto, non sarà la prima volta che dei cittadini di un paese comunitario lasceranno l’Unione dopo essersi espressi in merito con un referendum popolare. Il (semi)precedente risale al 1982-85 e si concluse con il ritiro della Groenlandia dalle Comunità Europee, con una dinamica che solamente negli ultimi mesi ha cominciato, timidamente, a ricevere maggiore attenzione pubblica.

Il caso della Groenlandia merita di essere analizzato con più cura in virtù anche di tre ordini di questioni che appaiono ancora oggi poco frequentate, ma che giocarono un ruolo fondamentale all’epoca: lo statuto non chiaro del tipo di situazioni specifiche che possono essere sussunte nella categoria di “Paesi e territori d’oltremare”; l’ambito geografico di applicazione delle disposizioni del Trattato della Comunità Economica Europea; l’ambiguo rapporto della Groenlandia nei confronti della Danimarca, a metà strada tra colonia, territorio integrato e nazione extraeuropea con diritto di autogoverno (“home rule”).

Questo triplice ordine di problemi trova sintesi e ulteriore peso in un interrogativo di maggior respiro e forza: come deve essere definito il concetto di “Europa”? E soprattutto, in maniera più strettamente legata alla cronaca politica continentale, cosa ci insegna il caso della Groenlandia per quanto riguarda la Brexit?

Nel “Trattato che istituisce la Comunità Economica Europea”, Parte Quarta, Articolo 131, si legge: “Gli Stati Membri convengono di associare alla Comunità i paesi e i territori non europei che mantengono con il Belgio, la Francia, l’Italia e i Paesi Bassi delle relazioni particolari. […] Scopo dell’associazione è di promuovere lo sviluppo economico e sociale dei paesi e territori e l’instaurazione di strette relazioni economiche tra essi e la Comunità nel suo insieme. Conformemente ai principi enunciati nel preambolo del presente Trattato, l’associazione deve in primo luogo permettere di favorire gli interessi degli abitanti di questi paesi e territori e la loro prosperità, in modo da condurli allo sviluppo economico, sociale e culturale che essi attendono.”[1]

Alla luce di questa definizione dei paesi e territori d’oltremare sembra poter essere associata anche la situazione groenlandese: la Groenlandia, dopo essere stata esplorata per la prima volta tra X e XI secolo da popolazioni norrene, aveva visto tagliati tutti i ponti con il continente europeo tra il XV e il XVIII secolo in seguito alla cosiddetta “piccola glaciazione”. Riscoperta dalla Danimarca nel XVIII secolo, essa era stata istituita come colonia della corona danese nel 1721, e, sin dal 1774, con l’istituzione del ‘Royal Greenland Department’, ogni suo rapporto commerciale con l’esterno era stato monopolizzato dallo stato danese.

Sul territorio groenlandese insisteva la popolazione degli Inuit, di origine nordamericana, che tutt’oggi costituiscono l’88% della composizione etnica totale del paese. Nel 1953 la Groenlandia, nonostante il proprio passato coloniale, fu trasformata in una parte integrante del territorio della corona, venendo promossa dunque su un piano di eguaglianza con la madrepatria: fu questa la ragione per cui essa entrò assieme alla Danimarca all’interno della Comunità Europea il 1° Gennaio del 1973: l’isola rappresentava a tutti gli effetti una provincia danese.

Durante il referendum danese del 1972 per l’ingresso nella CEE ben il 70,3% dei Groenlandesi si espresse contro l’adesione e il consiglio provinciale dell’isola chiese al governo danese di poter trattare direttamente con la CEE delle misure alternative di accesso alla Comunità, cercando di riservare per sé un diritto di contrattazione che, come provincia, non fu riconosciuto dalle autorità di Copenaghen.

Era questa l’unica scelta possibile? In realtà il menzionato Articolo 131 presenta un’enunciazione poco chiara, la quale però consente di poter dire che la Groenlandia, pure essendo una provincia della Danimarca, poteva sin da subito essere inclusa tra i Paesi e territori d’oltremare, giacché rispondeva a tre ben distinti criteri che sono evincibili dall’articolo stesso, cioè la non appartenenza al continente europeo[2], la peculiarità delle proprie relazioni con la Danimarca propriamente detta (un passato coloniale bicentenario[3] a cui va aggiunta la totale dipendenza economica dell’isola dagli aiuti del governo danese, che nel 1981 ammontavano a 261 milioni di dollari) e una aspirazione chiara degli abitanti ad un destino alternativo rispetto alla pura assimilazione alla Comunità, che aveva trovato espressione ulteriore nel referendum di adesione del 1972.

A rafforzare ancora di più questi argomenti, interviene la lettura dell’Articolo 227 del “Trattato che istituisce la Comunità Economica Europea”, contenuto nella Parte Sesta, “Disposizioni generali e finali”.

Si tratta dell’articolo che va a definire l’ambito prettamente geografico di applicazione delle disposizioni; più precipuamente interessa il Paragrafo 4 dell’articolo stesso, nel quale si legge: “Le disposizioni del presente Trattato si applicano ai territori europei di cui uno Stato membro assume la rappresentanza dei rapporti con l’estero.”[4]

Si vada a rapportare questa disposizione con la situazione totalmente eccentrica della Groenlandia e ci si renderà conto che questa godeva sì del diritto di possedere dei propri rappresentanti nel parlamento danese, il Folketinget, e che dunque si vedeva rappresentata in esso, il massimo organo legislativo del Regno di Danimarca, e che inoltre vedeva i propri interessi e relazioni con l’estero gestiti dal Governo di Copenaghen, ma che difettava dell’altro criterio fondamentale espresso dal Paragrafo 4 affinché fosse possibile applicare sul suo territorio le disposizioni del Trattato: la Groenlandia non era e non è tuttora un territorio europeo.

Proprio nel Paragrafo 3 dell’Articolo 227 si legge che: “I Paesi e i territori d’oltremare, il cui elenco figura nell’allegato IV del presente Trattato, costituiscono l’oggetto dello speciale regime di associazione definito nella quarta parte del Trattato stesso.”[5] Ancora una volta, giustapponendo i due paragrafi nell’articolo, si voleva rendere conto della differenza di applicazione delle disposizioni secondo il differente contesto geografico, europeo o extraeuropeo.

Pertanto, non solo dal Trattato non si evince una chiara inammissibilità dell’assimilazione della Groenlandia allo statuto di territorio o Paese d’oltremare, ma oltretutto, leggendo attentamente il Trattato stesso, sembrerebbe emergere una altrettanto distinta impossibilità di applicazione delle disposizioni sul territorio groenlandese, in quanto chiaramente non appartenente al continente europeo da un punto di vista geografico. Le due considerazioni sono strettamente collegate e anzi reciprocamente rinforzantesi.

Lo statuto di colonia danese che la Groenlandia vide imposto su di sé per la maggior parte della propria storia si configura come incongruente e opposto a una sua assimilazione al territorio europeo sia da un punto di vista geografico che da un punto di vista culturale.

Non vi sono mai stati paesi o territori europei sottoposti a regime coloniale in Europa, se si eccettua forse il caso di Malta, colonia britannica dal 1814 al 1964, la cui posizione geografica ad ogni modo rimane esattamente a metà tra l’Africa e l’Europa. Questo ragionamento è valido nonostante il dominio coloniale danese si sia configurato come non oppressivo in linea di massima, guidato dall’ufficiale volontà di “civilizzare” un popolo considerato come primitivo (in linea con la retorica prevalente all’epoca anche in altri paesi colonizzatori europei e non solo).

Nel 1953 la Danimarca, come già si è visto, assimilò la Groenlandia al resto del proprio territorio come provincia/contea; la decisione fu seguita da un periodo pluridecennale di acculturazione forzata della popolazione groenlandese, nel tentativo continuo di “danificarla” e modernizzarla, un processo che ebbe alla fine successo ma il quale suscitò anche comprensibili reazioni da parte degli autoctoni.

Dopo il referendum del ’72 e l’ingresso nella CEE del ’73, in seguito a pressioni sempre più insistenti da parte delle autorità provinciali groenlandesi, nel 1979 il governo danese concesse all’isola la ‘home rule’, ovvero l’autogoverno, con un corpo legislativo autonomo (Inatsisartut) e la possibilità di gestire alcuni aspetti di politica interna; fu solo a questo punto che la Danimarca accettò di confrontarsi con le autorità groenlandesi riguardo la permanenza del territorio all’interno della CEE, e ciò avvenne nel 1982 in seguito a delle dispute crescenti riguardo le politiche sul pescato, essendo l’attività di pesca l’unica potenzialità economica, all’epoca, dei Groenlandesi.

È da chiarire che comunque tutto il processo di esclusione del territorio groenlandese dalla CEE fu gestito in prima persona dal governo danese, il quale di propria spontanea iniziativa portò avanti tutte le pratiche necessarie, in una condotta dal punto di vista giuridico ineccepibile (appello all’Articolo 236 del Trattato di Roma[6]), consultandosi continuamente con il neonato governo groenlandese e stabilendo con esso di considerare vincolante la decisione del popolo groenlandese (il quale nel 1982 aveva, con un nuovo referendum, ribadito di voler uscire dalla CEE, con una maggioranza di favorevoli del 53%).

Fu allora ratificato da tutti i paesi della Comunità il diverso statuto della Groenlandia, la quale fu classificata come Paese d’oltremare con un apposito trattato (1984 – Greenland Treaty), col quale venivano emendati, in sette punti, i trattati precedenti delle Comunità Europee, con in aggiunta un protocollo (“Protocol on special arrangements for Greenland”) per stabilire delle particolari relazioni economiche tra la CEE e la Groenlandia, in modo tale che i fondi erogati alla Groenlandia prima e dopo l’uscita dalla Comunità rimanessero invariati.

Ciò che conta, qui, è considerare che, sia prima della concessione dell’home rule nel 1979, sia dopo tale concessione, le autorità prima provinciali e poi governative groenlandesi non ebbero il diritto di contrattare con la CEE il proprio ritiro dalle Comunità Europee: di fatto tutto il processo venne supportato ufficialmente e formalmente dal governo danese, il quale prese la decisione di portare la questione all’attenzione dei propri partner: ancora una volta è chiaro che ciò che venne fatto a livello di contrattazione europea sulla questione nel 1979-85 poteva essere già anticipato in precedenza, dato che le parti in causa e contraenti, in entrambi i casi, sarebbero rimaste invariate, considerata la mancanza di voce in capitolo riguardo i rapporti con l’estero delle autorità groenlandesi.

Ancora oggi il prerequisito fondamentale per l’adesione di un paese all’UE sia la sua “europeità”, la quale, nelle prime fasi dell’integrazione europea, veniva avvertita in una chiave soprattutto politica e non geografica[7], essendo obbligata la costruzione europea a fiorire nella faglia di frizione dei due blocchi contrapposti nello scontro bipolare.

I primi tentativi di definire i confini delle Comunità Europee si preoccupò di definizioni di principio, le quali ambivano all’interezza dell’Europa nella consapevolezza di dover costruire un progetto di ampio respiro di durata illimitata[8]; i confini ideali del concetto di Europeità sono stati tratteggiati in una modalità molto ariosa nei primi anni dell’integrazione europea[9], quando de facto il processo aveva delle frontiere molto nette, accettate e imposte dal contesto storico-politico. Al contrario il dibattito su cosa insista il concetto di “europeità” sembra in seguito essersi arenato a metà strada tra tendenze inclusive e timori di dover sfociare in modelli culturali pericolosi e che potrebbero rimandare ad ottiche troppo eurocentriche, così che i confini ideali della costruzione europea sono stati raggiunti e sorpassati da quelli effettivi: l’ammissione di Cipro, il 1° Maggio 2004, rappresenta la prima adesione all’Unione Europea da parte di un paese interamente non europeo sotto un aspetto strettamente geografico.

Il problema dell’identità europea, e dell’Europa, è che la definizione non può essere fornita semplicemente da un punto di vista geografico: l’Europa è un subcontinente dell’Eurasia, una mera appendice, che acquisisce il proprio status di continente solo da un punto di vista culturale.

Il caso della Groenlandia, un paese sia geograficamente che culturalmente non europeo[10], non va considerato, come parrebbe facile in prima istanza, un possibile precedente ad una fuoriuscita dall’Unione; al contrario la Groenlandia, che pur essendo una terra chiaramente extraeuropea era stata ciononostante inclusa nella Comunità senza alcuna preoccupazione se non economica, pone gravemente in primo piano la necessità, oggi, di costruire con maggiore forza una riflessione rinnovata sull’identità europea come base della futura integrazione, in un’ottica che, lungi dall’essere meramente discriminatoria, costituisce un fondamentale punto di appoggio per qualsiasi costruzione politica [11], cercando così di evitare, in futuro, di considerare come Europei popoli e nazioni che, come tali, non si percepiscono (ed è ironico pensare ad una situazione in cui i Groenlandesi fossero, benché da una prospettiva negativa, maggiormente consapevoli del significato culturale dell’ “europeità” rispetto a tanta parte della Comunità di allora, in primis i Danesi).

Tornando invece al parallelo con la Brexit, nonostante la rinnovata curiosità riguardo al caso groenlandese che si è scatenata nell’ultimo anno, specie nel Regno Unito, è palese che le distanze tra il caso groenlandese e quello britannico siano incolmabili, e le somiglianze tra i due paesi siano molto poche. Quella della Groenlandia, nonostante le dimensioni dell’isola, fu una vicenda marginale, che non produsse tensioni particolari, se non per qualche disputa riguardante la possibilità per i paesi europei di pescare nelle acque territoriali groenlandesi. Ciononostante, le trattative per portare fuori dai confini della Comunità un territorio povero e di soli 50.000 abitanti, avente come unico settore economico la pesca, durò ben due anni e mezzo, e le negoziazioni con i partner europei furono, a detta dell’ex rappresentante della Groenlandia presso l’UE Lars Vesterbirk, “un lavoro sorprendentemente spiacevole”[12].

Un paese di 65 milioni di abitanti, molto più connesso all’economia europea e in una fase molto più avanzata di integrazione politica e sociale del continente, di certo non può che guardare con sfiducia a questo precedente nel momento in cui si prepara a dire addio all’Unione. Nel caso della Groenlandia, peraltro, non va dimenticato che gli altri Stati membri furono duri e coriacei nonostante in fondo si trattasse di una regione che faceva parte (e sarebbe restata tale) di un altro Stato membro, con quest’ultimo che si faceva garante di un clima tutto sommato di reciproca fiducia nel corso delle trattative, che non poteva essere irrimediabilmente perduta vista la presenza continuata come membro della Danimarca.

È anche per via del ruolo giocato dalla Danimarca durante le trattative e grazie al fatto che la Groenlandia rimane comunque una zona arretrata del regno danese che i negoziati si risolsero positivamente, con la Comunità che si garantì la propria fetta di pescato e la Groenlandia che cominciò a ricevere in cambio forti sussidi (che tuttora proseguono, ammontanti a più di 200 milioni di euro tra 2014 e 2020).

Nel caso del Regno Unito, purtroppo per tutti, il clima di fiducia era stato perduto già anni prima del referendum, e non sarà di certo un accordo sul pescato a fare la differenza. Quale primo stato membro a lasciare l’Unione attivando l’articolo 50 il Regno Unito potrebbe indicare agli altri quali siano i limiti del desiderabile all’interno di quel che è possibile, almeno da un punto di vista economico, aspettando che un vero progetto per un’Europa culturale e sociale possa finalmente prendere forma per segnare la via dell’integrazione futura.

[1] “Trattato che istituisce la Comunità Economica Europea”, Parte Quarta, Articolo 131.

[2] “Il limes e l’identità”, Daniele Pasquinucci, in “Dalla piccola alla grande Europa”, a cura di D. Pasquinucci, Clueb, Bologna, 2006, pag. 191: “L’oggetto dell’intervento comunitario erano quindi collettività umane situate geograficamente al di fuori del contesto territoriale europeo.”

[3] Ibidem, pag. 191: “Con il Trattato di Roma entrato in vigore nel 1958 si era deciso di associare alla Comunità i Paesi e i territori d’oltremare, cioè quei territori geograficamente ‘non europei’ ma che avevano ‘relazioni particolari’ (così, nell’eufemistica formulazione del Trattato, veniva riecheggiata l’esperienza coloniale) di natura commerciale ed economica con Francia, Belgio, Italia e Paesi Bassi.”

[4] “Trattato che istituisce la Comunità Economica Europea”, Parte Sesta, Articolo 227, Paragrafo 4.

[5] “Trattato che istituisce la Comunità Economica Europea”, Parte Sesta, Articolo 227, Paragrafo 3.

[6] “Trattato che istituisce la Comunità Economica Europea”, Parte Sesta, Articolo 236: “Il governo di qualsiasi Stato membro o la Commissione può sottoporre al Consiglio progetti intesi a modificare il presente Trattato.”

[7] “L’Europa allargata: dalle sfide interne all’impatto esterno”, Giuliana Laschi, in “Oltre i confini: l’UE fra integrazione interna e relazioni esterne”, a cura di G. Laschi, Il Mulino, Bologna, 2011: “La piccola Europa del 1957 non si immagina tale, ma in crescita. Guarda alla geografia del continente, attende e si aspetta una crescita continua, per lo meno in quella che molti parlamentari definiscono l’”Europa libera”. Il primo confine della Comunità è infatti politico, non geografico.”

[8] “Trattato che istituisce la Comunità Economica Europea”, Parte Sesta, Articolo 240: “Il presente trattato è concluso per una durata illimitata.”

[9] Assemblea parlamentare europea, Documenti di seduta, “Relazione presentata a nome della Commissione politica sugli aspetti politici ed istituzionali dell’adesione e dell’associazione alla Comunità”, Relatore: Willi Birkelbach, 15 Gennaio 1962, pag. 3: “Considerata spesso come il nucleo di un’unione europea, la Comunità non comprende dal punto di vista geografico né una parte molto grande della superficie totale dell’Europa, né la maggior parte della superficie dell’Europa libera. Nella misura in cui però essa afferma la volont di impiegare le proprie forze per un’intesa più ampia, chiamandone a far parte, nel limite del possibile, anche altri Stati, la Comunità attinge un significato che fa di essa il precursore di un’ampia unione economica e politica europea.”

[10] Al riguardo la commissione europea fu, durante l’incorrere della questione della fuoriuscita, chiarissima, come si evince dal “Commission opinion on the status of Greenland”, allegato a “Status of Greenland-Bulletin of the European Communities, Supplement 1/83”, paragrafo 5: “The commissioni s well aware of the territory’s special situation – its remoteness from the rest of the Community, the climatic conditions influencing its economic structure and the sociological and cultural peculiarities of its non-European population.”

[11] “The relationship between political Europe and cultural/geographical Europe”, Dorin I. Dolghi e Ioan Horga, in “Oltre i confini: l’UE fra l’integrazione interna e relazioni esterne”, a cura di G. Laschi, Il Mulino, Bologna, 2011, pag. 78: “Any political construction should find its own democratic legitimacy as the main resource for its functioning. Within the European Union the basic challenge is to find those elements that can allow the Europeans to express a sense of belonging and to identify within a common set of values. When we refer to European identity we must apply the notion of collective identity which assumes that people tend to define themselves on the basis of a set of ideas to which they can relate positively and which they share with others. These ideas help to define the community they belong to. The formation of such a community will not only lead to a definition of the Self, but also of the Other, and thus to inclusion and exclusion of people.”

[12] https://www.slow-journalism.com/from-the-archive/this-is-what-happened-to-the-last-country-that-left-the-eu

iMille.org – Direttore Raoul Minetti
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