L’Unione Europa promotrice di ricerca e innovazione
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L’Unione Europa promotrice di ricerca e innovazione

L’Unione Europa promotrice di ricerca e innovazione

di Alessandra Moroni.

 

Pochi giorni fa sono state pubblicate le classifiche aggiornate delle migliori università a livello globale (THE World University Rankings), valutate principalmente in base a fattori quali insegnamento, ricerca, trasferimento di conoscenze e proiezione internazionale. In vetta Oxford e Cambridge, che hanno spodestato i “soliti” atenei americani da anni ai primi posti. La voce che ha determinato questa riclassificazione è data dai fondi per ricerca, sviluppo e innovazione a disposizione delle varie università: mentre le americane hanno sofferto una diminuzione di risorse, le Twins inglesi hanno visto i propri fondi aumentare. Trucco: i maggiori fondi messi a disposizione dall’Unione Europea a favore di progetti innovativi e premianti l’eccellenza nella ricerca.

Il primato europeo

L’Unione Europea si è sempre distinta quale promotrice di ricerca, sviluppo e innovazione, chiavi del progresso non solo economico ma anche sociale. Sin dal 1984 ha investito in tali settori attraverso programmi di finanziamento, denominati Framework Programme, proprio finalizzati ad assegnare fondi, mediante bandi competitivi, volti a premiare e sostenere progetti di varia natura rispondenti a criteri di eccellenza scientifica e industriale. Il primo di questi programmi (FP1) ha messo a disposizione Euro 3mrd nell’arco temporale tra il 1984 e il 1987 e la seconda edizione (FP2) ha vantato un budget di più di Euro 5mrd tra il 1987 e il 1991; tali programmi si sono susseguiti uno dopo l’altro con fondi sempre più sostanziosi fino al settimo (FP7) che, tra il 2007 e il 2013, ha dotato i ricercatori europei di fondi pari a circa Euro 55mrd. Attualmente è in essere l’ottavo programma, chiamato Horizon 2020, che mira a finanziare progetti innovativi dal 2014 al 2020 per un totale di quasi Euro 80mrd.

Questi programmi non esauriscono gli sforzi europei. A quanto sopra, infatti, si aggiungono ulteriori risorse distribuite in forma di fondi “settoriali”, dedicati a specifici settori come energia nucleare e spazio, e fondi “strutturali”, a vantaggio delle regioni economicamente meno avanzate. Nel periodo corrispondente alla durata del programma Horizon 2020, ossia tra il 2014 e il 2020, sono stati progettati fondi settoriali fino a Euro 5mrd e fondi strutturali fino a circa Euro 40mrd: sommando le varie iniziative, si parla di un totale pari a quasi Euro 120mrd a esclusivo vantaggio di attività di ricerca, sviluppo e innovazione in un arco temporale alquanto limitato. E non solo: oltre al sostegno monetario, l’Unione ricopre un ruolo cruciale nel creare e rafforzare reti di contatti e collaborazioni tra ricercatori. Ciò avviene sia facilitando l’accesso a strutture di ricerca prettamente nazionali e promuovendo progetti di ricerca congiunti tra le medesime, sia aiutando nella pianificazione e nel coordinamento dei lavori per la creazione di strutture di ricerca pan-europee, nonché agevolando l’operatività di organizzazioni inter-governative attive in vari campi (basti pensare a CERN – Organizzazione europea per la ricerca nucleare – e ESA – Agenzia spaziale europea).

Dietro al successo di Cambridge e Oxford

Oxford ha correntemente 303 progetti per i quali riceve fondi dall’Unione Europea per un totale di circa Euro 218mio. Cambridge certamente non sfigura, qualificandosi le Twins tra le maggiori beneficiarie dei fondi europei: un quinto delle risorse per la ricerca a disposizione di Oxford e ben un quarto di quelle di Cambridge provengono dall’Unione. Come già anticipato, sono state proprio tali ingenti risorse a permettere a queste storiche università di surclassare le rivali americane.

Il successo di Oxford e Cambridge è certamente sintomo di un fenomeno più ampio e coinvolgente i numerosi atenei inglesi che ormai da tempo si distinguono per qualità nell’insegnamento e avanguardia nella ricerca. Invero, a fronte di un impoverimento dei fondi governativi, ben il 71% delle somme dislocate a favore del Regno Unito nel contesto dell’ultimo Framework Programme conclusosi (ossia il FP7) sono andate a vantaggio delle università nazionali: si parla, dunque, del 71% di Euro 6.94mrd assegnati al Regno Unito direttamente in seno al programma FP7 tra il 2007 e il 2013. I numeri diventano ancora più significativi se si pensa che il Regno Unito è stato il secondo maggior beneficiario di fondi europei (secondo solo alla Germania con Euro 7.14mrd) e che nel medesimo arco di tempo solo il 2% delle risorse a sostegno dell’attività degli istituti universitari proveniva da enti pubblici nazionali. Le percentuali paiono finora consolidarsi anche con riguardo ad Horizon 2020.

Questi dati alimentano la preoccupazione delle università inglesi che, a seguito della Brexit, rischiano di veder il proprio primato offuscarsi. L’incertezza legata all’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea si riflette così nel fondato timore di non riuscire a continuare ad attrarre talento accademico e ricercatori e studenti internazionali, per il venir meno di una voce importante di risorse su cui finora si è contato e per il contestuale sorgere di ostacoli che disincentiveranno la scelta del Regno Unito quale sede di attività scientifiche (servi quale mero esempio la prospettata introduzione del requisito del visto che scoraggerebbe numerosi ricercatori e studenti europei a trasferirsi oltremanica). Ed è da questa incertezza e paura che poi nascono progetti quale quello di Oxford, ad oggi solo accennato ma non ancora deciso, di trasferire parte dei propri programmi di studio e laboratori di ricerca a Parigi in modo da poter continuare a qualificarli come europei e quindi beneficiare delle numerose risorse e opportunità offerte dall’Unione.

Oltre al Regno Unito…

Lo scenario sopra accennato mostra la bontà del progetto europeo con riguardo agli investimenti e agli sforzi dell’Unione in settori delicati e importantissimi come quelli della ricerca, dello sviluppo e dell’innovazione. L’esempio inglese e il disagio avvertito dalle università inglesi quali soggetti che nel breve termine rischiano di perdere il beneficio del supporto europeo ne danno ulteriore conferma e prova. Nondimeno, l’azione europea in questo campo coinvolge i numerosi istituti di ricerca, università e altri enti presenti nei diversi paesi membri: al fine di cogliere il valore dell’azione dell’Unione Europea in chiave nazionale, non si può tralasciare che anche l’Italia e i suoi ricercatori hanno tratto, e continuano a trarre, vantaggio dai programmi europei. Nel 2017, ad esempio, l’Italia è arrivata terza per numero di assegni di ricerca per l’eccellenza scientifica (Starting Grants), inclusi nel programma Horizon 2020, vinti da ricercatori italiani, avendone ottenuti ben 43. Tuttavia, secondo le statistiche solo 19 vincitori conducono la propria attività in Italia, essendo i rimanenti operativi all’estero. Tale nota si aggancia così al “problema italiano” di come evitare la fuga di talento ma incentivare l’attività scientifica e innovativa entro i confini nazionali: un altro capitolo che esula dalle mire più modeste di questo scritto.

iMille.org – Direttore Raoul Minetti
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