mercoledì
13 SetIl Jobs Act, tre anni dopo
di Clemente Pignatti.
L’approvazione dei primi decreti del Jobs Act ha ormai compiuto tre anni, durante i quali si sono seguiti numerosi cambiamenti legislativi non sempre coerenti fra di loro ma comunque espressione di una stessa idea riformatrice. Il dibattito politico sull’efficacia della riforma è stato arricchito in questi tre anni dalla crescente disponibilità di dati statistici – compilati da Istat, Ministero del Lavoro e INPS. Questa accresciuta disponibilità di dati ha anche generato una corsa ad interpretare ogni nuova rilevazione statistica (spesso con cadenza settimanale) come rivelatrice dell’esito ultimo della riforma del lavoro. Le origini di questa politicizzazione vengono da lontano, in un paese dove il diritto del lavoro ha sempre rappresentato un tema di dibattito politico prima ancora che tecnico. È quindi estremamente difficile conciliare le diverse opinioni che circolano e rispondere ad una domanda già di per sè complessa: il Jobs Act ha funzionato? Dopo tre anni dall’approvazione della legge, si possono però identificare alcune tendenze abbastanza stabili nel mercato del lavoro e provare a collegarle, con la dovuta cautela, ai cambiamenti legislativi avvenuti.
Il primo dato che emerge dalle rilevazioni Istat è sicuramente legato ad un aumento dell’occupazione. In particolare, il tasso di occupazione è aumentato di più di due punti percentuali passando dal 55.7 percento del secondo trimestre del 2014 al 57.8 percento dello stesso trimestre del 2017. Avendo l’Italia uno dei tassi di occupazione più bassi d’Europa, questo è sicuramente un aspetto fondamentale che i detrattori della riforma tendono – comprensibilmente – a sminuire. Nello stesso periodo, il tasso di disoccupazione è diminuito di più di un punto percentuale e la percentuale di forza lavoro inattiva è scesa di due punti percentuali. Ovviamente, è difficile dire se questo miglioramento sia avvenuto indipendentemente dalla riforma del mercato del lavoro o grazie ad essa. In tutta Europa, l’occupazione è infatti aumentata di più di due punti percentuali durante lo stesso periodo e paesi come la Spagna hanno ottenuto aumenti superiori ai 4 punti. Di certo, la quantità di posti di lavoro creati per punto percentuale di crescita del PIL – un indicatore approssimativo della capacità di un’economia di trasformare la crescita economica in maggiori posti di lavoro – è stata in Italia superiore alle aspettative e ha infatti portato ad una revisione al ribasso delle stime del tasso di disoccupazione. Questo sembra suggerire che le imprese abbiano approfittato delle regolamentazioni più flessibili in ambito legislativo per aumentare la forza lavoro, senza la paura di non riuscire a licenziare nel caso la ripresa non si fosse consolidata.
Risultati quindi sicuramente soddisfacenti da un punto di vista di posti di lavoro creati. La considerazione necessaria che segue riguarda la qualità di questa ripresa, in particolare rispetto alla distribuzione dei nuovi posti di lavoro tra diversi gruppi di lavoratori e la loro tipologia contrattuale. Per quanto riguarda il primo elemento, un dato che emerge abbastanza chiaramente è come l’aumento dell’occupazione si sia concentrato nelle fasce di lavoratori più anziani. Infatti, il tasso di occupazione dei giovani tra i 15 e i 24 anni è aumentato di appena un punto percentuale dall’introduzione del Jobs Act mentre il dato relativo ai lavoratori più anziani (55-64 anni) è aumentato di oltre 5 punti percentuali. Questo ovviamente porta a constatare come se un effetto positivo in termini occupazionali è stato raggiunto tramite il Jobs Act, la distribuzione di questo effetto tra le varie fasce d’età è stata influenzata da altri interventi legislativi (a partire dalla riforma delle pensioni approvata dal Governo Monti) o congiunture occupazionali (a seguito della perdita di molti posti di lavoro tra i giovani precari con l’inizio della recessione) che sono risultati ben più determinanti nel definire le tendenze occupazionali. Per questo motivo, sono stati (re)introdotti sussidi all’occupazione giovanile che hanno portato ad un aumento significativo ma solo temporaneo delle assunzioni.
Per quanto concerne la tipologia di posti di lavoro creati, un obiettivo chiave del Jobs Act era quello di favorire un’occupazione stabile e porre un limite alla diffusione del precariato occupazionale – soprattutto tra i più giovani. A tal proposito, l’introduzione di un nuovo contratto permanente a tutele crescenti è stata accompagnata da un forte sussidio economico per le imprese che assumevano con contratti permanenti. In tempi di consolidamento fiscale, le risorse destinate al sussidio occupazionale sono state invece particolarmente ingenti ed erano volte a familiarizzare le imprese con questa nuova tipologia contrattuale che sarebbe dovuta diventare la modalità di assunzione prevalente. Per monitorare le dinamiche di evoluzione delle varie tipologie contrattuali, l’INPS ha costituito un apposito osservatorio sul precariato. Gli ultimi dati disponibili da questa fonte mostrano peró come alla scadenza del sussidio, le assunzioni a tempo indeterminato siano diminuite notevolmente. In particolare, i nuovi rapporti a tempo indeterminato sono passati da circa 965 mila nel periodo da gennaio a giugno 2015 a 640 mila nello stesso periodo del 2017. Nel mentre, sono cresciute – di circa 500 mila unità – le assunzioni con contratti a tempo determinato. Stesse dinamiche si osservano per le trasformazioni di contratto a tempo determinato in contratti a tempo indeterminato, diminuite di quasi la metà in seguito alla fine della decontribuzione. La stessa conclusione è stata raggiunta da uno studio della Banca d’Italia su dati Veneti, che mostra come il contributo occupazionale abbia aumentato il numero di assunzioni a tempo indeterminato del 40 per cento; mentre gli effetti della riforma legislativa hanno pesato solo per un 5 percento addizionale.
Resta quindi da chiedersi perchè il Jobs Act non abbia pienamente funzionato – soprattutto rispetto ai suo obiettivi cardine di favorire l’occupazione giovanile e ridurre il precariato. Una prima motivazione riguarda probabilmente le aspettative troppo alte che sono state poste nei confronti di un cambiamento della legislazione lavorativa. Le scelte delle imprese derivano da un sistema complesso di dinamiche che includono il livello di capitale umano dei lavoratori, la capacità di ottenere credito a condizioni vantaggiose dalle banche e l’efficienza del sistema giuridico e amministrativo. In questo contesto, la legislazione lavorativa è quindi solo la punta dell’iceberg, che da sola non può modificare sostanzialmente le decisioni imprenditoriali. Il secondo problema è legato probabilmente alla congiuntura macroeconomica durante la quale è stato approvato il Jobs Act. Diversi studi economici hanno dimostrato infatti come le recessioni siano i momenti più propizi per approvare le riforme del mercato del lavoro da un punto di vista politico, ma allo stesso tempo aumentano il rischio che queste riforme abbiano degli effetti negativi nel breve termine. Giudicare una riforma strutturale in un momento di forte variabilità economica come quello attuale è quindi già in partenza un esercizio destinato a fornire una risposta solamente parziale.
L’ultima considerazione riguarda invece l’infrastruttura giuridica all’interno della quale si pone il Jobs Act. Infatti, la riforma legislativa è stata solo parzialmente (e con notevole ritardo) accompagnata da una simile revisione di interventi chiave come le politiche attive del mercato del lavoro. A questo si sono aggiunti cambi di rotta come l’abolizione (contro voglia) dei voucher e un alleggerimento della regolamentezione dei contratti a tempo determinato. La mancanza di coerenza legislativa tra i vari ambiti di riforma del mercato del lavoro ha quindi prodotto una riforma a metà, che stenta a trarre vantaggio dalla presenza di complementarietà legislative che per ora rimangono per lo più assenti.
iMille.org – Direttore Raoul Minetti
[…] *pubblicato sulla rivista iMille […]